Non è un semplice incidente di percorso, dobbiamo acquisirne piena consapevolezza, subito. Siamo in presenza di un passaggio, di una divaricazione irreversibile che muta definitivamente gli equilibri, i rapporti di forza, l’insieme delle relazioni sociali. L’epidemia di corona virus è caduta in epoca già di transizione, diffondendosi rapida nel gran mare delle quotidiane contraddizioni.

Covid19 ci ricorda Gavrilo Princip, ovvero un elemento fortuito, anche se non imprevedibile, che funziona da miccia generando l’esplosione. Lo studente bosniaco apparteneva a una piccola società segreta con pochi mezzi, Mano Nera (Crna Ruka), e l’attentato alla vita dell’Arciduca aveva possibilità di riuscita davvero minime. Solo il caso fece la differenza: scoppiò la Prima guerra mondiale, in Russia ebbero la meglio i bolscevichi, l’impero austro ungarico uscì per sempre di scena, nulla fu più come prima. Covid19 in un’altra epoca si sarebbe limitato a uccidere, in Mauritania o in Nepal la risonanza sarebbe stata minore.

Invece il virus si è sviluppato a Wuhan (oltre 11 milioni di abitanti), nella grande provincia industriale di Hubei (quasi 60 milioni di anime, circa come l’Italia), per poi raggiungere il territorio lombardo-veneto, nel cuore dunque dell’economia europea, dentro la struttura in cui si crea valore, in stretto necessario rapporto con il meccanismo complessivo di cooperazione sociale. Come accadde nella vicenda di Gavrilo Princip anche a Codogno il caso ha giocato un ruolo decisivo, la fortuita sequenza degli eventi ha aiutato il rapidissimo progredire del contagio. A prima vista pareva una normale insidiosa influenza stagionale, nessuno ha verificato la diagnosi prima del ricovero, Covid19 ha invaso i locali di degenza e l’ospedale si è trasformato in focolaio d’infezione. Quando lo si è capito era ormai troppo tardi, il virus correva di corpo in corpo nel territorio. La Cina stava diventando vicina anche se pochi se ne rendevano conto; l’Italia ancora una volta si preparava a divenire il campo di un complesso e vasto esperimento tecnico, giuridico, economico, sociale, senza precedenti in Europa, con un ceto politico caratterizzato da profonde divisioni.

Esperimenti normativi del tutto nuovi

La progressione è stupefacente, non ci sono precedenti. Il 23 febbraio scorso, con il decretolegge n. 6/2020, l’apparato di governo ha varato il primo provvedimento volto a contrastare l’epidemia corona virus; trattandosi di norme con carattere d’urgenza sono state applicate senza passare prima all’esame dal Parlamento, esecutive dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Poi, in velocissima sequenza, sono intervenuti altri decreti fino all’ultimo del 16 marzo 2020 n. 17, narrato, senza fornire il testo, nel corso di una conferenza stampa. Vedremo più sotto, in dettaglio, il contenuto di questa pioggia legislativa che presenta, nel metodo, un carattere innovativo, sia per la forma sia per la sostanza, aprendo anche una questione di non poco momento con riferimento al meccanismo di bilancio e di reperimento delle risorse necessarie.

Lo strumento del decreto costituisce in linea generale l’eccezione rispetto alla tradizionale separazione dei poteri, consentendo all’esecutivo di invadere lo spazio riservato alle due camere che detengono il monopolio in tema di legislazione. L’art. 76 della Costituzione consente la deroga per un periodo limitato, per un oggetto definito, con la determinazione di principi e criteri direttivi; l’art. 77 vieta in ogni caso, senza delega parlamentare, una decretazione con valenza di legge ordinaria.

Dopo la crisi economica del 2008, soprattutto per sollecitazione della BCE (la celebre lettera segreta) la decretazione segnò in Italia il cambio di passo, a mezzo dei decreti legislativi, ovvero di attuazione dei mutamenti sulla base di una delega che consentiva di limitare alle sole commissioni l’intervento di senatori o deputati. L’intero sistema del Jobs Act, che ha rivoluzionato il diritto del lavoro, fu varato a mezzo di decreti legislativi, con il silenzio, complice perché numericamente decisivo, dell’ala sinistra postcomunista.

Ora, di fronte all’epidemia, lo strumento del decreto, in un quadro oggettivamente eccezionale, viene utilizzato in modo nuovo, quasi creativo. La fonte normativa di questa scelta, la legge 23.8.1988 n. 400, porta tre firme autorevoli: Cossiga, De Mita, Vassalli. Gli articoli 14-17 regolano proprio la potestà normativa del governo. I decreti emanati nella contingenza del corona virus sono di due tipi, ben diversi l’uno dall’altro. L’origine (il n. 6 del 23 febbraio) è quella di un tradizionale decretolegge, da convertire poi, per non incorrere nella decadenza automatica, nel termine massimo di 60 giorni; altri successivi presentano le stesse caratteristiche. Ma, fra gli uni e gli altri, sono stati inseriti alcuni decreti del presidente del consiglio dei ministri (ovvero DPCM); a rigore questi non sono fonti autonome di diritto, sono regolamenti di attuazione e di esecuzione. I decreti (ministeriali e interministeriali) vengono di solito usati per le nomine dei dirigenti pubblici o per fornire indicazioni interne alla pubblica amministrazione.

Qui invece la decretazione ministeriale è stata usata per provvedimenti sostanziali importanti, come nel caso del DPCM 11 marzo di estensione generalizzata della zona rossa con invasione di area tradizionalmente legislativa. Il decreto ministeriale non è sottoposto alla firma del Presidente della Repubblica, si sottrae (almeno in parte) ai vincoli di bilancio preventivi. In particolare, questo meccanismo tende a disinnescare l’obbligo di pareggio, introdotto, senza un solo voto di opposizione, nella Carta Costituzionale con la legge 20 aprile 2012 (art. 97). Cedendo alle imposizioni contenute nella lettera segreta i parlamentari italiani, indossata la giacca di Tsipras, avevano accettato il principio di pareggio per far pagare ai precari il prezzo della crisi; il Covid 19 non ha rispettato l’ordine costituito. La novità della decretazione cerca una soluzione, non facile, comunque sperimentale, del problema insorto. Questa variante italiana è destinata non solo a rimanere un punto fermo, ma anche ad essere recepita dagli altri governi, ove non si trovino soluzioni tecnico giuridiche valide.

Le differenze fra Spagnola e Corona Virus

Per una sorta di beffa della storia la più violenta pandemia dell’epoca moderna si è sedimentata nella nostra memoria come la Spagnola per via di un falso. Impegnati a combattere, senza lesinare gas e bombe, tutti i governi dei due schieramenti contrapposti, nel 1918, avevano deciso di nascondere la rapidissima diffusione del contagio; ogni notizia giornalistica veniva sospettata di generare un pericoloso disfattismo, rafforzando il nemico. Il potere temeva il pacifismo più del morbo, le precauzioni più del virus.

D’altro canto, Filippo Tommaso Marinetti, stravolgendo in modo disinvolto Hegel, glorificava la guerra sola igiene del mondo e certo non aveva alcun interesse per cure preventive che distogliessero i fanti dal combattimento. La sola Spagna, rimasta estranea al conflitto, non aveva ragioni per censurare un bel nulla e così divenne l’unico territorio in cui la cronaca giornalistica informava su quanto rapidamente andasse aumentando il numero dei malati, dei morti provocati dalla influenza aviaria RNA H1N1. In Polonia provarono a definirla malattia bolscevica, in Danimarca male del sud, in Brasile la tedesca.

Invano. Vinse la forza della comunicazione giornalistica sulla polemica politica, costruita senza talento dai servizi di polizia, e per tutti nel mondo la terribile epidemia divenne semplicemente la Spagnola. Con la censura volevano evitare che il virus influisse sulla guerra; uccise più l’epidemia che le armi. Nel giro di due anni morì il 5% circa della popolazione mondiale (all’epoca due miliardi); in Italia le vittime furono almeno 600.000. L’economia, già piegata dalla guerra, subì un altro colpo, riportando conseguenze non estranee alla grande crisi di dieci anni dopo. La censura fu la scelta degli stati nazionali, del capitalismo fondato sulla fabbrica, sull’industria pesante.

Il neoliberismo del 2020, in tutte le sue varianti, vive di comunicazione globale, sulla rapida circolazione informatica fonda l’intero processo di estrazione e di appropriazione del valore. Non esita, ove necessario, a diffondere notizie false accanto a notizie vere; ma non è in grado di fermare il flusso di informazioni senza provocare un nefasto blocco dei profitti. Il meccanismo di cooperazione sociale esige la trasmissione di dati, contatti, rapporti; e senza (espropriare la) cooperazione sociale non arriverebbe denaro.

Questa volta l’epidemia non ha alcuna chance di legare il nome a un solo paese perché l’economia globale vive di comunicazione continua, senza muri. Le frontiere stesse sono ormai bucate; con estrema difficoltà si pongono come un ostacolo ai corpi in movimento, ma è impensabile che i gendarmi possano fermare i messaggi informatici o la merce immateriale. Il focolaio cinese, nonostante qualche resistenza delle autorità locali, è diventato immediatamente un fatto di dominio pubblico; in breve questa è diventata la notizia principale, ora il corona virus Covid 19 sta al centro dell’intero apparato d’informazione mondiale. Il governo cinese ha aperto la strada della cronaca diffusa a cadenza torrenziale e della decretazione (la mobilitazione per decreto), in luogo della censura, con un generale coinvolgimento dei sudditi nelle operazioni di contrasto del virus. Sta funzionando, anche sul piano del controllo sociale.

Nel 1918 il blocco delle notizie sulla pandemia era legato alla guerra di posizione, allo scontro fra trincee, alla necessità di fronteggiare il nemico con i corpi dei combattenti e con i corpi dei produttori della merce indispensabile per ottenere la vittoria. Nel 2020 esiste certamente un diffuso stato di guerra nel mondo, ma in una forma nuova, definita, sempre dai cinesi, come asimmetrica nel testo fondamentale in tema di strategia militare (Quiao Liang e Wang Xiangsui, Unrescricted Warfare, 1999). Oggi la comunicazione non può non essere anche (ovviamente non solo) guerra mediatica, cogliendo l’occasione per come essa si presenta. Certamente l’obiettivo principale rimane quello di arrestare il contagio, limitare il numero delle vittime, aumentare quello delle guarigioni; ma nel conflitto asimmetrico l’elemento secondario può essere combinato con quello principale e risultare decisivo per ottenere una vittoria.

Virus e conflitto

Non vi è dubbio che il furore neoliberista di ottenere profitti abbia giocato un ruolo anche in questa epidemia. La percezione del virus è una componente della realtà, anche notizie alterate producono reazioni conseguenti vere. Attenzione. Guai a cedere alla distrazione indotta con sapienza, guai a smettere di lottare con pervicacia per rivendicare diritti, tutele, liberazione, emancipazione. Senza perdere d’occhio tuttavia il quadro complessivo del campo di battaglia, lo stato d’animo dei precari, l’esistenza. Governi e capitalisti si muovono con la consueta destrezza, sono abituati a cogliere subito l’occasione, la loro stessa natura li conduce a cercare il modo di ricavare profitto o di guadagnare consenso in qualunque situazione; concepiscono gli aiuti solo come un investimento. Sono fatti così, si adattano, non cambiano.

Giorgio Agamben, in un suo recente articolo apparso sul Manifesto, ha ricondotto le misure governative dentro lo schema schmittiano dello stato di eccezione, con argomentazioni che non condivido. Non alludo alla infelice formulazione del titolo; sarebbe una critica facile e poco generosa. Discuto, e ne vale la pena, l’impianto logico del ragionamento, che non coglie, a mio avviso, la novità, la divaricazione.

Non è uno stato di eccezione ma piuttosto un passaggio. Esiste infatti, in questa emergenza, una oggettiva pluralità di interventi che, pur collocandosi dentro il campo istituzionale e capitalista, rispondono a esigenze diverse, a volte perfino incompatibili; sono inoltre provvedimenti misti, locali o nazionali, pubblici o privati, con un carattere sperimentale, e mutevole in corso d’opera, senza una contrapposizione esplicita rispetto al tradizionale stato di diritto. Peraltro, l’assetto istituzionale cinese si presenta assai difforme rispetto a quello italiano.

La legislazione per decreto, in Italia come in Cina, si lega al coinvolgimento comunicativo, al nesso fra esistenza e valore, fra cooperazione sociale e sistema. La costruzione di zone territoriali chiuse sottoposte a controllo tende a coniugare il progetto di appropriazione dell’esistenza all’azione capitalistica costituente, ma non ad opera di uno stato centrale sovrano bensì piuttosto di un mosaico di forze che agiscono autonomamente puntando al medesimo risultato (interpretazione liberista dello schema marciare divisi colpire uniti, ideato da Von Moltke e ripreso da Mao).

Il nostro Raimondo Montecuccoli, circa nel 1670, annotava: l’uso è maestro di tutte le cose, et ordinariamente c’è differenza fra quello che presuppone la teoria e quello che presuppone la pratica, et il consiglio richiede velocità perché le cose della guerra son punti et ore, né si dee dar nome di prudenza alla tardenza, perché le occasioni sono precipitose (Opere, I, pag. 189). Sminuire la valenza politica e quasi militare dell’emergenza Covid 19, come se si trattasse di un mero stratagemma del nemico, rientra in una sostanziale accettazione della sconfitta, tradisce la nostalgia per la vecchia lotta di classe in epoca fordista: essere minoranza testimone, a futura memoria. Intanto infuria la battaglia, in forme diverse, nei territori toccati dall’epidemia, negli spazi ancora immuni, ovunque.

Transizione

Questo è tempo di transizione. Dunque, è tempo di guerra, di conflitto etnico, di scontro per le risorse, di movimenti migratori, di distruzione ambientale. Anche il virus vive nel tempo di transizione e segna il tempo del virus.  La ciurma di pirati neoliberisti non ha ideali comuni, mira al denaro (o al profitto se si preferisce) senza curarsi del clima, degli esseri umani, a maggior ragione di flora o fauna. Si aggregano in singole strutture, stipulano alleanze, ma sono sempre pronti al tradimento, anche fra loro. Ridono di chi rispetta la parola data.

Non solo le guerre, anche le istituzioni sono dominate dai principi dell’asimmetria; la rappresentazione degli obiettivi si combina con gli obiettivi, celandoli o rendendoli manifesti o attuandoli per gradi, secondo le circostanze. I principi di asimmetria sono necessari per ottenere un sistema sufficiente di matematica nello stesso senso in cui i corpi fisici lo sono per una teoria soddisfacente delle nostre percezioni sensoriali. In entrambi i casi è impossibile interpretare le proposizioni che si intendono asserire circa queste entità come proposizioni sui dati, ovvero nel secondo caso sulle percezioni sensoriali effettive.

La consapevolezza dell’esistenza di proposizioni indecidibili non è un ostacolo; è anzi la levatrice di un metodo. Il punto di vista precario è per sua natura un punto di vista maggioritario, è nato nella Jungla e ci vive da sempre. Nell’editoriale del primo numero dei Quaderni di San Precario (novembre 2010) questa Jungla era così narrata da Frenchi: una selva oscura fatta di contorti trucchi e fiorenti artifizi, scadenze prossime ed eterni rinnovi, popolata da belve feroci, faccendieri, manager del saccheggio, maestri dell’oblio, stregoni del compromesso. Il punto di vista precario non è il frutto disperato di un gesto eroico, cresce nel conflitto, è il risultato della conoscenza, si fonda sulla scienza del comune in rivolta, usa lo schema asimmetrico, si nutre di resilienza, è allergico all’ideologia, non concepisce la rassegnazione.

Il punto di vista precario prevede di essere cauti in presenza di un contagio, evitando i danni; al tempo stesso evita distrazioni, sa che il nemico non esiterà a cogliere l’occasione del virus per colpire e guadagnare. In questo tempo di transizione il virus non è eccezione, ma elemento naturale prodotto dagli eventi, comunque un fatto. La ciurma dei pirati neoliberisti si serve della comunicazione per ottenere profitto, non ha interesse per un programma di lungo periodo, pianifica con previsioni mensili, al massimo con cadenza trimestrale.

Scriveva la polizia zarista nel XII protocollo dei Savi Anziani di Sion: potremo eccitare o calmare l’opinione pubblica quando ci occorrerà di farlo. Potremo persuaderla o confonderla stampando notizie vere o false, fatti o contraddizioni, secondo quello che servirà al nostro scopo. Le informazioni che pubblicheremo dipenderanno dal modo in cui il pubblico sarà propenso ad accettare le notizie; staremo sempre molto attenti scandagliando il terreno prima di camminarci sopra.

Il neoliberismo non perde tempo a considerare le conseguenze collaterali, usa alleanze contingenti per cogliere l’occasione di un risultato, nell’immediatezza: una speculazione in borsa, uno spicchio di mercato, l’acquisizione di risorse energetiche, la conclusione di un conflitto o l’apertura di un altro, la caduta di un governo o il suo consolidamento. Christine Lagarde ha provocato, consapevolmente, un terremoto finanziario; poi ha corretto il tiro, di nuovo alterando i titoli, senza considerare, neppure per un istante, l’ipotesi delle dimissioni. Ha usato, per generare un trasferimento enorme di profitti, il tempo del virus, con cinismo e disinvoltura, seduta sullo scanno più alto della BCE, con l’esperienza di chi aveva diretto, al vertice, lo studio internazionale d’affari Baker & McKenzie (seimila avvocati in 46 paesi) e il Fondo Monetario.

Ogni singolo segmento del reale si caratterizza per una diversa composizione dei giochi e delle alleanze; non esiste dunque uno stato di eccezione nel senso tradizionale e schmittiano. Esiste piuttosto un conflitto permanente, asimmetrico, caratterizzato da un mosaico di protagonisti senza ideologia e senza (non valore ma) valori. L’apparato di governo usa l’appello ipocrita alla guerra contro il virus per nascondere la realtà di una guerra, vera e in corso, per le risorse e per il profitto. Anche i principi che regolano il contratto di lavoro non si sottraggono a tale conflitto, ne risentono, mutando; l’organizzazione capitalistica finanziarizzata coglie oggi l’occasione del virus, provvede ad emanare rimedi sanitari e sociali, ma al tempo stesso rafforza il processo di sussunzione, estendendo ulteriormente la condizione precaria per rendere stabile l’obiettivo di porre l’esistenza a valore. Andremo ora ad esaminare brevemente quel che accade al lavoro nel tempo del virus.

Lavoro e virus

I focolai di Covid 19 nelle aree produttive del nord sono stati la causa del primo decreto-legge 23 febbraio 2020 n. 6, al vaglio delle commissioni di Camera e Senato, con poche modifiche previste. Il testo è quasi esplorativo, alquanto vago nella ripartizione delle competenze fra Comune, Regioni, Stato e articolazioni istituzionali (sanitarie, d’ordine pubblico, assistenziali), senza commissari e senza assegnazioni precise. La conseguenza, nelle prime ore, è stata quella di una oscillazione fra panico irragionevole e rimozione immotivata, fra pandemia catastrofica e semplice influenza stagionale. La strategia di comunicazione mediatica (quasi sempre a pagamento, su commissione di singoli committenti interessati ad un qualche utile) presenta, in questa fase iniziale, notevoli contraddizioni nel rappresentare la realtà. Ma il blocco forzato, di attività lavorativa e di socialità, e al tempo stesso la creazione di zone infette (a media o alta intensità di possibile contagio) rappresentano insieme una novità inattesa, con un carattere sperimentale più che eccezionale (si veda in particolare l’articolo 1 comma 2 lettere n-o del decreto). L’intervento pubblico, per come elaborato, non poteva non sollevare numerosi interrogativi, proprio per la sua indeterminatezza tecnica; non era semplice indovinare le possibili ricadute sul contratto individuale di lavoro e sulla retribuzione da corrispondere, per i lavoratori e per le imprese. Sul primo testo si è radicata, ad iniziativa del solo esecutivo, la sequenza correttiva, effettuata a mezzo di decreti ministeriali che, sempre con una forma sperimentale fino ad oggi sconosciuta, iniziavano a coinvolgere i singoli soggetti, affidando loro ogni sorta di responsabilità nell’organizzazione delle misure di assistenza e/o prevenzione.

Quando si tratta di un contagiato la soluzione si presenta semplice, applicando le norme relative alla malattia. Tuttavia, questa è l’ipotesi meno ricorrente in concreto. Quasi sempre si tratta o di una limitazione imposta dalla parte pubblica e subita dai due contraenti (lavoratore/impresa) o (in assenza di limitazioni e in presenza di sole raccomandazioni) di un rifiuto della prestazione da parte dell’impresa o di un’assenza giustificata dal dipendente con l’oggettivo timore di un danno alla salute. Le conseguenze sul contratto di lavoro sono assai diverse, soprattutto perché nel primo decreto governativo mancavano disposizioni puntuali. L’assenza dal lavoro, per mera cautela, a fronte di un danno potenziale oggettivo, ma non richiesta dall’impresa, probabilmente rientra nelle giustificazioni valide, difficilmente comporta un diritto alla retribuzione. In buona sostanza, nella prima fase sperimentale di legislazione per decreto, la scelta è stata quella di mantenere una marcata ambiguità, di incertezza, lasciando ai rapporti di forza sul campo il comportamento da tenere. Le organizzazioni sindacali si sono prudentemente defilate; il governo ha preso atto che la protesta sociale non assumeva forme troppo radicali. La paura del contagio tendeva a prevalere sul disagio economico.

La sospensione dell’attività, non richiesta dal lavoratore e decisa unilateralmente dall’impresa, non sospende automaticamente i pagamenti; per questo le imprese nelle settimane iniziali esitavano sul da farsi. Quando invece non c’è attività per decisione pubblica siamo di fronte alla impossibilità temporanea (articolo 1256 del codice civile), e questa può essere anche parziale (articolo 1258). Il decreto, anche qui con importante innovazione, ha liberato le prestazioni a distanza dai vincoli legislativi, per fronteggiare Covid 19. Secondo le norme ordinarie sono necessari il consenso e la codificazione (approvata) delle condizioni per dar corso al c.d. smart working; nel tempo del virus non ci sono più regole, vale il fatto compiuto per la durata dell’emergenza. Il legislatore conduce l’istituto nello schema della esecuzione divenuta impossibile (quella in azienda) per la parte che è rimasta possibile (da remoto).

Si apre uno scenario contrattuale da sottoporre a ricerca e valutazione, completamente nuovo. La prestazione smart working esce dall’area originaria legata all’accordo bilaterale, si espone alla possibile imposizione e alla codificazione del rifiuto quale inadempienza (non solo del rifiuto del lavoratore, anche quello dell’impresa). Il governo ha trapiantato forme di smart working dentro la propria struttura amministrativa e poi ha esteso il trapianto nel tradizionale contratto subordinato a tempo indeterminato. Trattandosi di adempimento diverso da quello oggetto del contratto iniziale (quanto meno nella modalità) a seguito di un decreto (il c.d. factum principis) interviene insidiosa la questione di come questa attività debba essere valutata e retribuita, in assenza di regole e di accordi; non necessariamente vale la paga ordinaria, senza pattuizione decide la magistratura. L’intero ciclo d’istruzione, d’improvviso, ha acquisito una veste telematica, separando il consolidato rapporto corporeo fra docente e studente; le case e le esistenze, per decreto, si sono trasformate in sedi decentrate d’impresa in assenza di qualsivoglia regolamentazione prevista da leggi o contratti collettivi. Questa è una rivoluzione contrattuale senza precedenti nel nostro ordinamento giuslavoristico.

Laddove poi risulti inapplicabile qualsiasi forma di smart working, trattandosi di mansioni operaie o tecniche da eseguire in gruppo e/o con attrezzature pesanti l’impossibilità diviene totale. In questa ipotesi, che si presenta come maledettamente reale, il sindacato, nella fase iniziale preso in contropiede, ha siglato un accordo di massima che nella sua stesura consegna alla parte datoriale il controllo del filtro di accesso agli ammortizzatori sociali, senza una strategia autonoma.

La consumazione di ferie o permessi diventa, nella articolazione per decreto, essa stessa un ammortizzatore sociale consigliato, a carico del lavoratore, per evitare l’alternativa di perdere il salario. La strategia aziendale non lascia adito a dubbi, rifiutando di farsi carico dei costi legati alla prevenzione sanitaria. In questo quadro di grande incertezza è intervenuto il DPCM 11 marzo 2020 (quello noto come resto a casa) che ha esteso il divieto di spostamento ingiustificato all’intero territorio della Repubblica, chiudendo d’imperio bar, ristoranti e negozi (salvo eccezioni necessarie alla sopravvivenza quotidiana); queste chiusure sono ricadute sui rapporti di lavoro senza altri chiarimenti, ancora una volta sperimentando sul terreno la reazione collettiva. Nella settimana che precede l’ultimo decreto l’unica reazione significativa è stata quella di un rientro di massa nei paesi di origine, posto che gran parte dei trasfertisti (studenti, operai, impiegati, tecnici, dirigenti) neppure disponevano di una casa idonea nei territori in cui lavoravano. Il governo ha compreso di poter proseguire lungo il cammino intrapreso ignorando le scarse resistenze, contando sul prevalere del timore.

Il decreto-legge n. 17 del 16 marzo 2020, da ultimo varato senza troppe proteste delle opposizioni, conferma la scelta di estendere il ricorso alla cassa integrazione guadagni. Ma la cassa integrazione, nonostante le assicurazioni poco convincenti, cade, come onere, su INPS, dunque sul monte pensionistico dei lavoratori, e comporta comunque anche una riduzione consistente del reddito. Il costo sociale dell’emergenza sanitaria viene in questo modo a gravare sui lavoratori, liberando le imprese; si spiega così il consenso di Confindustria e Confcommercio agli ampliamenti dell’intervento di integrazione guadagni. Non bisogna celare, tuttavia, che l’estensione per nove settimane della cassa integrazione anche a microstrutture artigianali o commerciali costituisce un sussidio effettivo, che non risolve i problemi, ma concede respiro. A prima lettura è probabile che le risorse si riveleranno insufficienti, ma sappiamo che l’economia della promessa spesso ottiene ugualmente risultati. Di certo l’esecuzione concreta imporrà dei filtri, e nella struttura del decreto questi filtri troveranno un appoggio nel recente accordo fra le parti sociali. Non siamo al ritorno della antica compartecipazione, è piuttosto una navigazione a vista.

L’ultimo decreto non ha un indirizzo univoco e risolve peraltro alcune precedenti ambiguità. Per un verso mantiene la rotta salvaguardando ancora una volta l’interesse d’impresa in modo assai più consistente rispetto a quello dei lavoratori; valga in particolare la disposizione dell’art. 16 che impone di lavorare, se muniti di mascherina, anche incollati al compagno di lavoro. Ma al tempo stesso contiene, sia pure con una certa prudenza, forme di assistenza e di aiuto, come i congedi legati ai figli con meno di 12 anni, i voucher per baby-sitter, la riconducibilità della quarantena (i 14 giorni canonici di isolamento) al trattamento di malattia, sulla base di un semplice certificato medico, salvaguardando la retribuzione senza toccare il periodo di comporto.

Meno significativi mi sembrano, almeno a prima lettura, i provvedimenti di erogazione una tantum destinati a stagionali, braccianti agricoli, autonomi. Inoltre, viene ordinato il blocco bimestrale dei licenziamenti collettivi aperti dopo il 23 febbraio e in generale di quelli per giustificato motivo, compreso il personale domestico. Vale la pena di ricordare il solo precedente in materia, il decreto 21 agosto 1945 n. 523 che vietava alle imprese i licenziamenti per quattro mesi, quale misura volta a ridurre il disagio del periodo postbellico; portava la firma del comunista Togliatti, del democristiano Gronchi, dell’azionista Parri. Questa è una vera e propria correzione di tiro rispetto ai decreti precedenti che eludevano la questione; ed è una disposizione introdotta per raccogliere consenso. Di natura non salariale, ma ugualmente di rilievo sociale, è la norma che consente il ricorso alla requisizione di beni e di immobili per far fronte alle necessità di curare i contagiati; per un periodo limitato e senza eliminare difficoltà si tratta pur sempre di una scelta che contraddice la mania di privatizzare, rafforzando invece l’intervento pubblico. E qui sarebbe bello trovare il modo di rendere davvero operativa una scheggia normativa che rientra nella logica dei beni comuni per troppi anni rimasta isolata, farne un supporto di buone pratiche.

Si tratta, dicevamo, di norme miste, di una contaminazione fra esigenze neoliberiste tradizionali (controllo, sussunzione) e interventi volti a contrastare l’epidemia cercando di salvaguardare il meccanismo di cooperazione sociale necessario per estrarre valore. Un capitalismo finanziario e meticcio, composto di elementi dispotici anche violenti, ma ingentilito dagli ammortizzatori sociali, anche violando temporaneamente la parità di bilancio. La forma della decretazione non serve molto per la parte repressiva (i diritti erano già stati rasi al suolo dal partito democratico), è invece necessaria per mantenere il principio del pareggio, pur aggirandolo e ignorandolo. Questa navigazione a vista, a ben vedere, concede una piccola tregua a chi dispone di un reddito o di un risparmio; alla crescente area umana di poveri lascia invece poco scampo, per loro rimane solo il ruolo di vittime. Mi sembra probabile che su questa via italiana si incammineranno, magari con diversità e perplessità, anche gli altri paesi europei. Il decreto 17/2020 costituisce precisa indicazione per il trattamento dei lavoratori pubblici e privati; dovranno farsene una ragione anche gli olandesi, i tedeschi, perfino i polacchi.

Mancano completamente, in questo ultimo decreto come nei precedenti, le tutele per i vasti settori in cui la paga di fatto è strettamente legata alla prestazione, alla scadenza. Sono i lavoratori somministrati, quelli intermittenti, i riders, i giornalieri, i padroncini addetti a presa o consegna, gli stagisti, gli edili. La retribuzione reale in questi settori è per almeno un terzo fuori busta, sotto la voce trasferta o per contanti; gli ammortizzatori non coprono neppure la sopravvivenza, l’incidenza del fermo e della crisi sarà sempre più violenta ogni giorno che passa. Questo grande universo su cui si fonda il cuore del sistema produttivo appare quasi ignorato nella decretazione, salvo forse il rinvio del pagamento del debito aperto per i mezzi o per la casa; il punto di vista precario muove allora la sua critica proprio a partire dalla constatazione di una deliberata esclusione dello sciame senza diritti.

Ma ancora peggio stanno i lavoratori precari: quelli a cui non viene rinnovato il contratto e dunque non possono usufruire del divieto di licenziamento, o quelli che guadagnano su chiamata delle cooperative. Soprattutto subisce senza rimedio il costo della crisi il gran mare dei lavoratori in nero: la carovana di clandestini usati in edilizia o in agricoltura, gli studenti fuori sede che nelle metropoli vivono dividendo una sola stanza e campando di lavoretti rimediati dentro le pieghe del sistema complessivo ora inceppato. Io resto a casa titola il decreto ministeriale. Ma un occupante, un clandestino, un precario che ha lasciato il paese di nascita, in che casa può andare? In quale balcone si metterà a cantare? Per questi fantasmi non c’è spazio nella decretazione, non esistono e non è previsto un futuro.

La colonna dei precari non sempre risiede anagraficamente nei luoghi in cui abita di fatto; in ogni caso si sposta, è mobile, supera le zone, non conosce i confini, risponde alle chiamate per necessità di sopravvivenza. Poi finisce in carcere e muore senza nome, come i nove di Modena. Sembra incredibile, ma ad oggi, molti giorni dopo l’accaduto, non c’è un comunicato ufficiale, nessun giornalista corre ad intervistare il procuratore inquirente, nessun parlamentare interroga, nessuna trasmissione televisiva pone domande evitando risposte che appaiono indesiderate. Esiste un nesso preciso, non casuale, fra questo silenzio e l’assenza nella decretazione della fascia debole di precariato che vive al di sotto della soglia minima di sopravvivenza o che rientra nel 28% di prestazione lavorativa sommersa. Il provento criminale contribuisce alla determinazione del prodotto interno, ma il lavoro nero resta fuori dalle tutele previste in caso di epidemia.

Nel tempo del virus l’apparato di comando naviga a vista e procede alla sperimentazione, per istinto probabilmente più che per disegno preordinato. Coglie l’occasione. Separa i territori, divide i corpi, atomizza la composizione dello sciame precario, si pone come mediatore necessario e imprescindibile dei rapporti, condiziona il meccanismo di cooperazione sociale. Le imbarcazioni dei pirati liberisti si muovono divise; anche se non ne hanno magari piena consapevolezza si preparano a colpire insieme, usando il tempo del virus e la situazione confusa per acquisire il pieno controllo del comune espropriandolo. Ha ragione Gabriele Battaglia nel rilevare che il capitalismo ha una formidabile capacità di adattamento, un eccellente sistema immunitario; e nel porre il che fare nella invenzione di forme organizzative rinnovate nelle mutate condizioni. Già. È proprio questo il punto di vista precario.

Immagine di apertura: Jean Michel Basquiat, Untitled (A Nation of Fools)

 

 

                      

 

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