Ho provato a scrivere di mestruazioni, in una sorta di fenomenologia che possa legare quello che accade a un corpo (al mio corpo) con quello che succede in una società. L’ho fatto parlando da qui, dal mio corpo di donna bianca che vive in Italia, non per misconoscere altre esperienze di oppressione ed esclusione che le mestruazioni comportano, ma per provare davvero a iniziare una conversazione. Come scrivono Kiran Gandhi (diventata famosa per aver corso la maratona di Londra nel 2015 al primo giorno di mestruazioni senza assorbenti anche per protestare contro il loro prezzo) e Manjit Gill, infatti, quello che collega le diverse forme di stigma e tabù nelle diverse parti del mondo è il “non avere un vocabolario accettato socialmente per poter parlare del tuo corpo con tranquillità” e che questa è “la più efficace forma di oppressione” perché “impedisce alle donne di parlare con sicurezza di quello che succede loro”.
Ho avuto il menarca, la prima mestruazione, quasi perfettamente in linea con la media italiana. Ho sanguinato per la prima volta, infatti, a 13 anni, mentre la media ora è di 12, ma l’età continua ad abbassarsi. Era una domenica mattina, il 7 novembre, e lo ricordo soprattutto perché mio padre esclamò, sorridendo, “come la rivoluzione d’ottobre!”. Poco prima mia sorella aveva iniziato a ridere, in bagno, quando abbassandomi le mutande avevo trovato una sostanza scura, che lei ovviamente aveva pensato fosse cacca. Mia mamma mi ha abbracciata forte, dicendosi felice per la notizia. Io piangevo, disperata, sentendo il controllo sul mio corpo improvvisamente mancarmi sotto ai piedi.
Sapevo, da tempo, tutto sulle mestruazioni, ma è stata lo stesso una sorpresa, che mi ha quasi paralizzata e mi ha spinta a chiedere a mia mamma di non dirlo a nessuno. Poco dopo lei alzava il telefono per dirlo alle sue amiche (sono stata la prima delle figlie!) e, andando tradizionalmente a pranzo dai nonni, venivo accolta dal giubilo delle zie e da un bicchiere di vino tirato fuori da mio nonno per festeggiare il mio essere “diventata signorina”. Una bella reazione, non posso lamentarmi, ma non posso fare a meno di notare che, mentre in qualche modo vieni accolta nella comunità delle “donne” (e ricordo che, però, non tutte le persone con le mestruazioni sono donne, quindi anche questa accoglienza può essere sofferta), diventa anche chiaro che quello che avviene al tuo corpo è un fatto pubblico: non ricordo brindisi o telefonate per le prime polluzioni di mio cugino. E questo con tutta l’ambivalenza di potersi riconoscere in parte nell’esperienza corporea di altre, ma anche di trovarsi improvvisamente esposta ad uno sguardo e un disciplinamento che, sebbene presente anche prima, con le mestruazioni si fa realtà, si incarna. E Goliarda Sapienza ci offre alcune delle più vivide descrizioni di questo passaggio, come in Lettera aperta, in cui scrive: “Cosa erano quel sangue e quei dolori? Dovevano essere forti se Nica era diventata così magra e seria, e non giocava più nel cortile. Adesso che sapevo, vedevo che non usciva più, se non con la madre o il fratello, né alzava la testa a salutarmi quando stavo con Carlo e Arminio: solo se non c’erano uomini mi salutava, ma senza sorridere. Dovevano essere terribili quei dolori, se lei era cambiata così” (p. 110 e su questo vi invito a leggere il bellissimo volume di Alberica Bazzoni Writing for Freedom).
Certo, Sapienza descrive la Sicilia tra le due guerre, ma riguardo all’esperienza delle mestruazioni poco sembra essere cambiato. Il menarca è non solo l’inizio di un appuntamento mensile con l’interno del proprio corpo che ne cola fuori, ma è anche l’inizio di un apprendimento di comportamenti e attitudini verso questo stesso appuntamento che hanno ancora a che fare con il tabù e la segretezza. Da quella prima volta ho sanguinato circa 280 volte (ho da subito avuto un ciclo molto regolare) per un totale di più di 1500 giorni (sì, le mie mestruazioni durano una settimana, olè) e in buona parte di questi giorni li ho utilizzati per capire come preparare una bustina che contenesse il numero giusto di assorbenti per il tempo in cui dovevo stare fuori casa, per capire come infilarmeli in tasca sotto il banco per non mostrarli alla classe, e come sussurrare “sono indisposta” per saltare ginnastica. Le mestruazioni impongono una capacità di previsione e di controllo di sé, per tenere traccia del tempo e sapersi immaginare nel futuro, consapevoli che è sempre in agguato l’imprevedibilità. Per placare questa imprevedibilità io usavo delle stelline sul diario, ora vanno per la maggiore le app, che tengono il nostro tempo e guadagnano dall’offrire al mercato preziosissimi dati sui nostri corpi.
Il tempo delle mestruazioni, infatti, è un tempo sì ciclico, ma non perfettamente ciclico: varia al variare del tempo, dell’umore, fino a scomparire del tutto non solo in condizioni di denutrizione, ma anche di reclusione, o dopo un grosso stress. Ed è un ciclo non perfettamente liscio. Per lungo tempo sono stata fortunata, soffrivo di dolori mestruali soltanto il secondo giorno, in cui l’ibuprofene diventava il mio migliore amico, insieme alla sensazione di volermi raggomitolare su ogni superficie piana che incontravo. Da qualche tempo a questa parte, invece, soffro molto i dolori dell’ovulazione, detti anche, in termini medici, mittelschmerz (dolori di mezzo, ma si sa che il tedesco suona più incisivo). Un dolore di cui soffre circa una donna su cinque (quindi circa il 10% della popolazione) ma di cui non si conoscono bene le cause: che sia il rigonfiamento del follicolo a premere sull’ovaia? Oppure è proprio la rottura della parete a far male? O che sia la contrazione delle cellule muscolari lisce? O quella delle tube di Falloppio? Chissà, il risultato è che mi contorco come una isterica di Charcot, con cui ogni mese sento un’affinità sempre più forte. E che la medicina mi consiglia soltanto antidolorifici, borse dell’acqua calda o la pillola, nata come anticoncezionale e ormai sempre più utilizzata per regolare i cicli mestruali e sopprimerne i dolori. Attenzione, però, a sanguinare sempre, anche se si tratta di un sangue che poco ha a che fare con quello del mestruo sembra sempre uno scandalo pensare di sopprimerlo del tutto.
Quello che accade coi dolori mestruali mette in luce un altro dei grandi temi delle mestruazioni, cioè il fatto che costruiscano un corpo femminile naturalmente portato a provare dolore, tanto che l’endometriosi (malattia diagnosticata a 180 milioni di persone nel mondo e recentemente portata alla ribalta dalla decisione di Lena Dunham di sottoporsi ad un’isterectomia per questo motivo) viene diagnosticata in media con un ritardo di 7/9 anni, perché chi ne soffre pensa si tratti di dolori normali, anche perché spesso c’è poco confronto sull’esperienza delle mestruazioni, se non dei sussurri sulle nostre cose e delle risate sull’essere sincronizzate. E la ricerca medica sulle mestruazioni e i loro dolori è spesso ferma, preferendo lasciare tutto in mano all’industria farmaceutica, ai suoi antidolorifici e alle sue pillole. Non è un caso, quindi, che l’endometriosi sia stata descritta e definita solo nel 1927 e che l’ovulo sia stato riconosciuto solo nel 1821, mentre prima si contrapponevano teorie sul fatto che fosse il sangue mestruale a coagularsi con lo sperma per produrre un feto o che la donna non mettesse nessuna materia nel processo. E che quando avvenisse l’ovulazione, cioè verso la metà del ciclo, sia stato scoperto solo nel 1924 da Ogino, molto noto per un fallimentare metodo contraccettivo. Per questo qualcun* mi ha anche suggerito che i miei dolori post-ovulazione siano molto utili per tenere il tempo delle mie ovaie.
Certo, le cose stanno cambiando e sono molte le donne che parlano in pubblico delle proprie mestruazioni e le pubblicazioni che danno loro spazio. Basta ricordare, per citare due casi molto vicini, il numero di Internazionale del 13 maggio 2016 intitolato “Scorrerà il sangue” o il libro “Questo è il mio sangue” di Élise Thiébaut da poco pubblicato da Einaudi. Non è un caso però, credo, che entrambi abbiano la stessa immagine in copertina: un assorbente interno su sfondo rosso. Questa immagine sembra quasi addomesticare l’orrore del sangue mestruale, che Julia Kristeva ricollega all’abietto, che proviene da “un dentro esorbitante, gettato a lato del possibile, del tollerabile, del pensabile” (I poteri dell’orrore, p. 4), un sangue che non deriva da alcuna ferita, che semplicemente scorre. Per dirla con il signor Garrison in South Park un sangue che ispira sfiducia – “non mi fido di una cosa che sanguina per 5 giorni e non muore”. Un sangue che non può essere ricondotto a nessun eroismo, a nessuna volontà, e che mette in discussione i limiti tra interno ed esterno di un corpo. E allora l’immagine di un tampone, compatto e pulito, può quasi sembrare rassicurante.
In realtà, in Italia, nonostante la proliferazione di coppette mestruali e l’arrivo delle mutande assorbenti, gli assorbenti più utilizzati sono ancora quelli esterni (non è un caso che i tamponi, inventati del 1936 – ma presenti anche nell’antico Egitto – siano arrivati da noi soltanto nel 1967). Io non ricordo quando ho iniziato ad utilizzare gli assorbenti interni, ma ricordo la difficoltà di farlo. Per prima cosa, nulla era ancora mai entrato nella mia vagina, e mi sembrava difficilissimo capire la posizione giusta in cui metterlo, oltre al timore, irrazionale e infondato, che potesse perdersi nell’utero. E poi ho sempre avuto il vizio di leggere le confezioni e quelle dei tamponi parlano chiaro del rischio di TSS (Sindrome da shock tossico) che mi sembrava pronta a colpirmi da un momento all’altro. Si tratta di un’infezione causata da una tossina di uno stafilococco, che non si sa bene come sia collegata agli assorbenti interni, ma lo è. Devo confessare, però, che superata l’ansia di morire a causa della TSS, i tamponi mi hanno permesso di evitare moltissime irritazioni delle ali che sfregano sulla pelle col caldo e l’assurdo costume che usavo per fare il bagno. Fortunatamente non mi ha mai sfiorata l’idea di non potermi tuffare in acqua, ma in mancanza di tamponi mettevo l’assorbente esterno sul costume e coprivo il tutto con un’altra mutanda a pantaloncino. Vi lascio immaginare la comodità.
Gli assorbenti interni, però, non sono stati guardati con sospetto soltanto dalla me adolescente, ma anche da madri e zie preoccupate per la verginità delle proprie figlie e per la possibilità che, infilando un tampone, potessero toccarsi la vulva e scoprire le gioie della masturbazione. L’introduzione dell’applicatore, però, ha tolto anche questo rischio, lasciandoci con solo quello della tossina. Questo anche perché, per qualsiasi tipo di assorbente, la legge non obbliga a dichiarare quali siano i componenti, anzi, punirebbe chi dovesse renderli pubblici per aver rivelato brevetti spesso segreti. Così rimaniamo in balia di infezioni e allergie, non sapendo quello che mettiamo a contatto con la nostra vagina (e anche sui vari assorbenti bio sono scoppiati scandali che ne rivelavano componenti tutt’altro che naturali. Però possiamo pagarli molto, dato che in Italia non sono considerati beni primari e sono tassati al 20% – e ogni proposta di legge che cerchi di cambiare le cose viene ridicolizzata e considerata superflua. E giustamente la reazione a tutto questo è l’enfasi sulla coppetta mestruale, che ha infiniti vantaggi, ma del quale troppo spesso viene messo in luce soltanto quello ecologico, in una visione dell’ecologia che ricade sui comportamenti individuali e sulle donne, come se fosse più accettabile che non riconoscere di promuovere la coppetta per i suoi costi (e in molte parti del mondo può fare davvero la differenza) e per la nostra salute. E senza mai mostrare come la coppetta illumini come spesso gli spazi in cui lavoriamo non siano pensati per noi, con lavandini e wc divisi da una porta, che obbligano a strane contorsioni per lavare la coppetta con bottigliette d’acqua sempre un po’ in bilico.
E se non sappiamo di preciso cosa ci sia dentro i nostri assorbenti, interni o esterni, le pubblicità ci mostrano anche che non ci dovrebbe finire del sangue, ma un liquido spesso blu e trasparente, e molti profumi penetranti per neutralizzarne l’odore. Perché all’orrore del sangue si unisce il disgusto per il suo odore pungente. Le mestruazioni, così, sono un aspetto del nostro corpo che non può essere romanticizzato, che ci allontana dalla donna angelicata per consegnarci all’abietto. Come sottolinea Simone de Beauvoir, infatti, le mestruazioni rimandano alla natura e alla vita, due regni eminentemente femminili, ma in questo caso “la terra è una fossa e la vita una lotta spietata: al mito dell’ape industriosa, della chioccia, si sostituisce quello dell’insetto divorante, della mantide religiosa, del ragno; la femmina divora il maschio; l’ovulo non è più il ricco granaio, ma una trappola di materia inerte dove lo spermatozoo, castrato, annega; la matrice, calda, tranquilla e sicura cavità, diviene poliposa e tentacolare, una pianta carnivora, un abisso di tenebre convulse abitato da un serpente che inghiotte instancabilmente le forze del maschio” (Il secondo sesso, p. 239). Per questo non posso che ringraziare Rupi Kaur per Period la serie di foto, resa nota dalla censura da Instagram, che ritrae immagini di sangue mestruale. E che mi ha ricordato tutte le volte che, sbagliati i calcoli, mi trovavo a dormire fuori senza assorbenti per la notte e facevo accrocchi di assorbenti uniti l’uno sull’altro per tamponare la situazione, spesso non riuscendoci e svegliandomi con un lago di sangue sulle lenzuola. In realtà anche il flusso più abbondante produce circa 80ml di sangue al mese, ma sembrano molti di più versati sulle lenzuola o sulle mutande da correre a strofinare con abbondante acqua fredda, se no il sangue non si toglie. Le mestruazioni sono il lato oscuro della femminilità dipinta come naturale e allo stesso tempo lontana dall’aspetto che la ancora alla specie, il sangue mensile, che, sempre secondo de Beauvoir, ci ricorda che la donna “la donna abbozza senza tregua il travaglio della gestazione”, “sperimenta il suo corpo come una cosa opaca, alienata, in preda a una vita ostinata ed estranea che in esso ogni mese fa e disfa una culla” e spesso guarda al suo sangue con il sollievo di non essere incinta. Le mestruazioni, in fondo, ci ancorano alla possibilità costante della riproduzione, come ci ricorda anche la pillola, che inganna il nostro corpo convincendolo di essere già fecondato per non produrre nuove uova.
Le mestruazioni, in maniera beffarda, procedono in direzione ostinata e contraria rispetto alle lotte delle donne per staccarsi dalla relazione obbligata con la riproduzione. Solo un secolo fa il menarca si presentava in media verso i 16-17 anni e nella preistoria le donne ovulavano significativamente meno (un po’ perché allattavano di più, ma anche in relazione all’alimentazione e allo stile di vita). Solo con la sedentarietà il ciclo mestruale è diventato regolare, ciclico come lo intendiamo ancora oggi. Sedentarietà e ciclo vanno d’accordo e ci ricordano come attraversare i confini sia una pratica molto più scomoda se si disseminano gocce di sangue sul proprio cammino. Ma, pensando alla preistoria (mi perdonino gli/le storiche!), mi piace immaginare che il tabù sulle mestruazioni e l’idea che le donne siano impure sia la reazione misogina e spaventata alle donne che, scoprendo il proprio ciclo, inventano pratiche di riposo, devozione e sospensione del lavoro a cui gli uomini rispondono con lo stigma che ancora ci affligge. Una immagine quasi utopica di come avrebbe potuto essere una diversa divisione del lavoro e di gestione del tempo (ancora più utopica se di pensa al ridicolo che circonda ogni proposta di congedo mestruale).
Le mestruazioni, e l’intero ciclo, sono una delle espressioni di una modalità di rapporto con il corpo che oscilla tra naturalizzazione e medicalizzazione. Da un lato, infatti, si moltiplicano gli appelli al sanguinare liberamente, a seguire il proprio ciclo e a regolare il proprio tempo su quello. Dall’altra, quasi in assenza di ricerca medica, si sviluppa una costante offerta di farmaci che intercettano le mestruazioni, la sindrome premestruale e la menopausa. Una modalità di trasformare la fisiologia in una patologia, per la quale sono necessarie cure specifiche, che in nessun modo interviene sullo stigma e che trasforma i corpi che sanguinano in corpi sospetti, sui quali le persone che li abitano non possono mai pienamente avere controllo senza l’ausilio di costosissimi farmaci che muovo giri d’affari miliardari. In entrambi i casi assistiamo a forme normative di costruzione di una soggettività femminile intrinsecamente legata alle sue mestruazioni, che non mettono in discussione la società dentro cui queste soggettività si muovono, finendo per proporre modelli per molte irraggiungibili: da un lato quello di una donna che anestetizza le mestruazioni fino a non sentirle, dall’altro una completamente coincidente col suo ciclo. Ancora una volta ci troviamo di fronte alla proposta di dicotomie, che troppo spesso hanno schiacciato i corpi femminili.
Quello che, invece, volevo provare a mostrare con questo lungo flusso sul sangue mestruale era quanto le mestruazioni siano politiche, e non solo perché danno vita a disuguaglianze economiche e rafforzano l’esclusione di alcuni soggetti dalla sfera pubblica. Ma anche perché sono un fenomeno collettivo che non è mai standard, mai regolare, ognuna (e ognun*) lo vive in maniere profondamente differenti, e questo può essere un buon modo per pensare la parzialità nel collettivo, una esperienza comune non uniforme. E allora speriamo di veder scorrere il sangue!
Riferimenti
Alberica Bazzoni, Writing for Freedom: Body, Identity and Power in Goliarda Sapienza’s Narrative, Oxford, Peter Lang, 2017
Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Milano, Il Saggiatore, 2008
Lena Duhnam, In Her Own Words: Lena Dunham on Her Decision to Have a Hysterectomy at 31, Vogue, 14 febbraio 2018, https://www.vogue.com/article/lena-dunham-hysterectomy-vogue-march-2018-issue
Kiran Gandhi & Manjit K Gill, The menstrual taboo in India and in the US: What does it look like, why does it exist?, Thomas Reuter Foundation, 7 luglio 2016 http://news.trust.org/item/20160707175723-bujh9/
Elle Hunt, ‘Enjoy menstruation, even on the subway’: Stockholm art sparks row, Guardian, 2 novembre 2017, https://www.theguardian.com/cities/2017/nov/02/enjoy-menstruation-subway-stockholm-art-row-liv-stromquist
Rupi Kaur, Period, https://rupikaur.com/period/
Julia Kristeva, I poteri dell’orrore, Bologna, Spirali, 2006
Raffaella Malaguti, Le mie cose. Mestruazioni: storia, tecnica, linguaggio, arte e musica, Milano, Mondadori, 2005.
Museum of Menstruation, http://mum.org/
Goliarda Sapienza, Lettera aperta, Palermo, Sellerio, 1998
Scorrerà il sangue, Internazionale 1153, 13 maggio 2016.
Élise Thièbaut, Questo è il mio sangue, Torino, Einaudi, 2018
Immagini
Judy Chicago, Red Flag, 1971 (apertura)
Rupi Kaur, Period, 2015
Liv Strömquist, Il giardino notturno, Metro di Stoccolma, 2017 (vandalizzata poco dopo l’affissione)