Questo testo contiene la traduzione parziale di un discorso che Maria Puig de la Bellacasa – studiosa femminista nel campo degli studi femministi sulla tecnoscienza – ha pronunciato nel 2014, in occasione di un simposio organizzato dal network belga di ricerca femminista Sophia. Il discorso mette a fuoco questioni diverse e intrecciate sul ruolo del pensiero e della pratica femminista nell’università contemporanea inglese, a partire dall’esperienza dell’autrice.

La traduzione integrale, autorizzata dall’autrice, è a cura di Mariacristina Sciannamblo e disponibile su commonfare.net.

La versione originale in inglese è disponibile qui

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Piuttosto che un testo di ricerca accademica, questo testo si compone di alcune note aperte sui modi in cui l’esortazione Pensare pensare dobbiamo lanciata da Virginia Woolf risuona oggi nella mia esperienza di lavoro nell’università britannica.

Comincio il mio intervento con un omaggio personale al lavoro svolto da Sophia. Essere stata un membro attivo di questa organizzazione unica, tra il 1998 e il 2008, è stata per me una esperienza fondamentale nel percorso che mi ha portato a diventare femminista e accademica. La stanza dove ci siamo riunite lo scorso Novembre è esattamente la stessa stanza dove ho presentato il mio primo lavoro accademico più di sedici anni fa, quando Nadine Plateau ha riposto la sua fiducia in me che presentavo la ricerca contenuta nella mia tesi di laurea.

[…] Sophia aveva ideato un formato stimolante attraverso cui organizzare le sessioni di discussione, in cui studiose affermate avrebbero discusso gli articoli presentati da giovani ricercatrici. L’accoppiamento di due generazioni di saperi femministi è stato pungente e stimolante, altre volte esplosivo e altre ancora addirittura doloroso, rivelando la potenza del pensiero femminista nel costruire nuove connessioni e, allo stesso tempo, mantenere il potenziale per scuotere e sradicare. […]

Oggi Sophia ci riunisce ancora per pensare, per riflettere sulla direzione che potremmo intraprendere circa l’articolazione del pensiero femminista e di una pratica militante, e, più in generale, per misurare la temperatura della nostra situazione. Ma quali domande noi dobbiamo pensare oggi?

Tuttavia pronunciare il ‘noi’ nel noi dobbiamo pensare nel contesto dell’invito di Sophia a discutere oggi è complicato per me. Balbetto. Non che io dubiti che abbiamo molte cose da pensare insieme, così tanto in comune, eppure non sono così sicura come ero abituata a essere  rispetto a cosa potrebbe renderci un ‘noi’ in questo momento, come potrei proporvi un ‘noi, su quali basi? Quali sono le lotte o le avventure di pensiero che possiamo condividere?

Una delle acquisizioni ben sedimentate nel pensiero e nella pratica femminista contemporanei è che il pensiero è un’attività altamente situata. […] Forse una cosa ancora più importante per la nostra conversazione di oggi è che la persona che sta parlando qui occupa una posizione relativamente stabile, che prevede condizioni materiali estremamente diverse dalla precarietà che comporta il portare avanti una ricerca di dottorato o dell’ottenere il prossimo post-dottorato. Dato che queste condizioni non smettono di peggiorare, parlare di un ‘noi’ politico con colleghe e amici femministi di fronte a questo futuro che si sta restringendo dalla prospettiva di posizioni precarie non è scontato, e potrebbe rappresentare un atto di insensibilità. Ed esistono altre posizioni multiple frammentate che potrei tirare fuori, come ad esempio i divari generazionali, le sessualità, o la maternità “in ritardo”.

[…]

Nel suo invito, Sophia suggeriva che potremmo cominciare dalle nostre esperienze. Quindi qui è dove io suggerisco di iniziare,  da qualcosa che ha contrassegnato molte delle conversazioni che ho avuto e che ho tuttora circa il pensare come femminista nel mondo accademico: l’esposizione all’inadeguatezza, o persino la sua desiderabilità potrei aggiungere; la desiderabilità dell’essere estraneo che il pensare pensare dobbiamo richiamato da Woolf trasmette fortemente, così come articola esplicitamente nel suo discorso contro le università del sua tempo dalla posizione di una “anonima e segreta Società delle Estranee”.

Esistono diversi modi di essere inadatte; l’essere estranee è relativo. Ma gran parte del pensiero femminista è stato elaborato a partire dal prendere seriamente in considerazione quel qualcosa che non si percepisce giusto, anche se mancano le parole per esprimerlo, e dal seguire quel sentire mentre ci connette agli altri.

Sedici anni fa, quando ero seduta in questo stesso posto per presentare un lavoro esitante, avevo un piede in quello che percepivo come il mondo alieno dell’Accademia, mentra gran parte del mio corpo, della mia anima e dei miei desideri si mantenevano su terreni che sentivo come outsider, terreni che possiamo nominare per brevità “attivismo”. Molte volte ho dovuto rendermi conto che, anche in contesto femminista, potevano condurre a scontri, e che avere desideri politici comuni non significava necessariamente essere in connessione. A quel tempo, davo la colpa all’università e alle sue dinamiche disgiuntive. Pertanto, nei dieci anni successivi la spinta femminista è stata volta a enfatizzare e nutrire i modi in cui tenere vivo uno dei poteri del pensiero femminista verso cui sentivo di avere l’impegno maggiore: la dedizione alla possibilità di costruire solidarietà tra posizioni divergenti, di modo che queste potessero prendersi cura l’una dell’altra anche attraverso le divisioni.

[…]

# Pensare, pensare dobbiamo – pensieri interiori

Pensare, pensare dobbiamo. In ufficio; mentre tra la folla osserviamo l’incoronazione e l’investitura del sindaco di Londra, mentre passiamo accanto al Monumento dei Caduti; mentre percorriamo Whitehall; mentre sediamo nella tribuna riservata al pubblico della Camera dei Comuni; nei tribunali, ai battesimi, ai matrimoni, ai funerali. Non dobbiamo mai smettere di pensare: che “civiltà” è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie, e perché dovremmo prendervi parte? Cosa sono queste professioni, e perché dovremmo diventare ricche esercitandole? Dove, in breve, ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti? (Woolf 2016: 92-93)[1]

Perché il pensare pensare dobbiamo non fa riferimento a un pensiero pacifico, accettabile e adatto. Per Woolf esso rappresenta, tra le altre cose, un tipo di istruzione che permette di “insegnare ai giovani a odiare la guerra”, ma più estesamente potrebbe rappresentare un tipo di pensiero che si oppone all’interrotta venerabile tradizione del capitalismo patriarcale: violenza contro le donne, razzismo, e tutte le fonti di esclusione, estinzione e sfruttamento dei non-umani… Un pensiero che vada contro lo status quo, che sia portatore di cattive notizie – che potrebbe assomigliare alla guastafeste femminista elaborata da Sara Ahmed (2010), che rovina il banchetto festoso delle oppressioni di ogni sorta. Un pensiero che prende le parti dei più vulnerabili, esclusi e silenziose, e che rompa i confini dell’università per pensare con le esperienze di coloro che non ce la fanno a entrare negli spazi di privilegio – come l’ “outsider dal didentro” di Patricia Hill Collins (Collins 1986), le “neplanteras” di Gloria Anzaldúa (Anzaldúa 1987), la “testimone modesta” di Donna Haraway (Haraway 1997), e tante altre provenienti da posizionamenti differenti. Ma parlo anche di un pensiero che non si fermi lì e che sia guidato da un desiderio di altri mondi possibili, da un impegno speculativo che sappia andare oltre ciò che è, che presti attenzione a come altri mondi migliori potrebbero già esserci ed essere nutriti – come le “portatrici di speranza” di Hilary Rose (Rose 1983).

Quindi, quando qui parlo di pensare mi riferisco a quel tipo di pensiero che faccia una differenza radicale nell’essere solidale con l’inadatto. Pensare pensare dobbiamo parla della possibilità di un pensiero di rivolta scolpito persino nel cuore del particolare tipo di pensiero remunerato che le università sostengono e, per estensione, di qualsiasi tipo di “pensiero remunerato”.

[…]

Come ho detto prima, ho biasimato le contrapposizioni accademiche per aver creato molti degli ostacoli alle connessioni femministe. Sebbene ciò sia ancora qualcosa che reputo importante, mi sembra anche che le università non siano mondi separati, bensì riflettano le società di cui sono parte. […] Il pensiero che divide prospera nelle società che dividono. Il basso livello di lotta, rivolta e insurrezione nell’università in particolari paesi riflette anche lo stato dei movimenti sociali. Mi domando se potremmo imparare e identificare le dinamiche repressive delle politiche di austerità nel pensare di oggi.

 

# Un pensiero solenne – disonora il pulpito

 Noi che ora agitiamo futilmente quest’umile penna potremmo parlare dal pulpito. Nessuno oserà contraddirci, allora; saremo le portavoci dello spirito divino… che visione grandiosa, non è vero? (Woolf 2016: 91)

Qui è dove Woolf disse che la Società delle Estranee potrebbe insegnarci a resistere: non solo rifiutare di offrire al potere “occhi abbagliati” e di coltivare “indifferenza”, ma anche resistere alla “vendita” dei nostri cervelli a “fedeltà artificiali”. Questo è qualcosa che trovo necessario pensare oggi, come una questione politica.

Ora conosco l’esperienza di essere imbarazzata da “occhi abbagliati” indirizzati su di me. Non mi piace quando le persone mi collocano in un mondo differente perché possiedo un titolo di dottorato di ricerca. Questo non è nè un tratto della personalità né una questione psicologica; è un problema politico. Oggi la sfida potrebbe essere non solo quella di rifiutarsi di guardare al potere con  “occhi abbagliati”, ma anche incoraggiarci a vicenda a sfidare lo scambio del nostro lavoro nell’economia degli “occhi abbagliati” che impedisce la solidarietà. […]

In molti modi so che ciò che ha fatto sì che in questo lavoro potesse continuare ad esserci gioia sono gli interstizi di cura che persone impegnate sono riuscite a ritagliare e a mantenere vivi a dispetto dell’istituzione e nonostante l’istituzione: crepe nella cornice di coercizione e pressione da cui il pensare pensare dobbiamo schizza fuori – o che a volte semplicemente produce silenzi scomodi. Molti di questi arrivano dalle voci femministe che non si adattano e che provano a entrare in comunicazione.

Molti di questi spazi sono frammentati lungo molte ubicazioni, in Accademia e oltre. E il lavoro di coinvolgere questi frammenti l’un l’altro, il lavoro di nutrire queste bolle di ossigeno va oltre il lavoro programmato, esso implica favorire le reti di cura che tengono le solidarietà vive.

 

# La scienza è infetta – l’oggettività aggiornata

 La scienza, a quanto pare, non è asessuata; è un uomo; un padre, affetto da quel morbo. (Woolf 2016: 183)

[…]

Nei tardi anni ‘90 le scienziate e studiose femministe hanno aperto la strada e così il pensiero femminista può contare su una larga serie di attrezzi per portare avanti il nostro doppio lavoro, quello di guastafeste nella casa della oggettività-in quanto-imparzialità e quello di portatrici di speranza verso approcci alternativi alla scientificità: le articolazioni di un punto di vista femminista, l’affermazione di una conoscenza situata, le tante connessioni creative tra teoria e pratica, pensare da, per, e con le esperienze marginalizzate (Harding 2004).

[…]

Oggi è pervasiva un’altra versione della neutralità o, si potrebbe dire, un altro modo di neutralizzare il pensare. Un modo che può essere fatale per il pensare pensare dobbiamo dentro le istituzioni. Questo va sotto il nome di metriche. E significa, ad esempio, che la qualità e il valore dei “prodotti” del pensiero viene misurato in numeri di articoli (queste nuove modalità di valutare la conoscenza è stato oggetto di ricerca approfondita da De Angelis & Harvie 2009 per esempio). Quanti articoli hai pubblicato? Com’è classificata la rivista in cui hai pubblicato? Quante volte sei citato?

 

# Perdita di notorietà – opinione schietta

 Proteggere la cultura e la libertà intellettuale significa […]  derisione e castità, perdita di notorietà e povertà. (Woolf 2016: 113).

[…]

E il pensare pensare dobbiamo di Woolf non riguarda anche qualcosa come l’ “opinione schietta o insubordinazione generale”?

Altrove ho scritto sul “pensare con cura” come se possa potenziare un pensare che ci mette in connessione, ma anche come un pensiero che può ritagliarci: quando diciamo “no” in nome di qualcosa di cui abbiamo davvero cura. È possibile avere troppa cura ed essere adeguate come accademiche?

 

# Dondolare la culla

 Come Lei sa per esperienza personale e come dimostrano i fatti, le figlie degli uomini colti hanno sempre pensato i loro pensiero così alla buona; non a tavolino, nel proprio studio, nella solitudine tranquilla di un chiostro d’università. Hanno pensato mentre rimestavano la minestra, mentre dondolavano la culla. (Woolf 2016: 92)

Le persistenti opposizioni privato/pubblico, personale/politico respingono ancora quel tipo di pensiero che si fa mentre si “dondola la culla” – ma questa esperienza di dondolare la culla è anche spesso respinto dal pensiero collettivo che potrebbe aiutarci a sottrarci proprio al rifiuto di tale pensiero. Il pensiero che metterebbe in questione i poteri che abbiamo guadagnato dal separare ulteriormente noi stesse dai mondi della cura (e non parlo solo di cura fuori dal lavoro). Un tipo di pensiero che riaccenderebbe il pensare pensare dobbiamo di Woolf!

Ho realizzato che negli anni ‘90, quando militavo nell’attivismo femminista, ho raramente pensato al perché avevamo così poche madri nei nostri gruppi, per non parlare di altre responsabilità di cura. Oggi la questione di come pensare al “nuovo maternalismo” – la parola rivelatrice che Natalie Loveless ha ritagliato per questa importante ri-attuazione (Loveless 2012) –  sembra molto più fondamentale. La verità è che non ricordo di aver dedicato un pensiero serio non tanto alle lotte di amiche che avevano figli – l’ho fatto –, ma nessuno al fatto che le bambine e i bambini notoriamente non erano mai intorno a noi, e a come questa separazione, insieme ad altre, potrebbe influenzare ovviamente le madri e i figli, ma anche il tipo di di pensiero e attivismo che stavamo portando avanti.

[…]

Come ha detto Woolf, non ci sono scuse, perché le donne si sono sempre dedicate alle attività di pensiero mentre stavano facendo qualcos’altro… Ma oggi io potrei dover scegliere di ignorare “qualcos’altro”, ignorare quell’email, assentarmi con la mente mentre siedo in commissioni o compilo inutili moduli. Perché cosa succede se io non voglio pensare mentre sto rimestando la minestra, e se vedessi dondolare la culla come un’attività altamente utile, un momento sacro per stare con un bambino? Cosa succede se sono stanca di sentire il lavoro di manutenzione del quotidiano degradato rispetto all’attività del pensiero?

Vedo il riemergere di questa questione trasversale come presagio di speranza. La cura non è un’attività innocente, neutrale o apolitica; è una nozione contestata carica di significati situati e scopi. Attingo dalle eredità femministe un significato di cura come un problema (Precarias a la Deriva, 2006). Per me la cura parla di un’attività più ampia di quella di dondolare una culla, prendersi cura di un genitore o di un compagno, umano o non: per me la cura parla anche di scrivere ciò che ci interessa davvero anche se probabilmente non sarà numerabile, passare il tempo ad ascoltare davvero uno studente oltre il tempo assegnato, connettere il nostro pensiero con le lotte locali, essere schiette e insurrezionali in solidarietà con coloro che sono oppressi… tutte attività che hanno meno probabilità di essere valutate, non tanto dai colleghi o dalle comunità intellettuali, ma dalle classifiche predominanti di valore e privilegio.

[…]

Eppure per questo c’è un prezzo che non paghiamo equamente tra posizioni diverse, e spero che possiamo incoraggiarci a vicenda, e proteggerci anche, quando necessario.

 

# Continuare a sognare – Presagi di cura

 “A che serve stare a pensare a come potrebbe essere diverso un college”, sembrava dire, “se deve essere un posto dove si insegna a trovare un lavoro?”. “Lei continui pure a sognare” […] “Noi dobbiamo fare i conti con la realtà”. (Woolf 2016: 59)

[…] Come resistere alle nostre speranze ridotte a un “continuare a sognare”? Come evitare di trasmettere questo cinismo agli studenti e alle future ricercatrici?

Molte di noi sono appassionate di femminismi basati sul desiderio di solidarietà, fortemente influenzati dall’amore tanto quanto dalla rabbia, e dallo sforzo speculativo di pensare a come le cose potrebbero essere diverse… questo desiderio era anche la base  delle epistemologie femministe radicali. Credo che questo desiderio di “nuovi metodi”, come dice Woolf, rimanga un desiderio radicale, che risuona ancora più forte dopo l’avvertimento di Audre Lorde che “gli strumenti del padrone non demoliranno mai la casa del padrone”.

I metodi includono pensare a quali meccanismi di solidarietà e schemi di resistenza possono essere sviluppati in questi contesti in evoluzione. Pensare pensare dobbiamo e continuare a far sentire la nostra voce collettivamente e come femministe su dove la mercantilizzazione dell’università – o “Edufabbrica”, come l’hanno chiamata alcuni attivisti europei – ci sta portando. Pensare pensare dobbiamo se e come noi femministe possiamo ancora essere schiette sul tipo di istruzione che stiamo aiutando a riprodurre […].

L’emanazione della cura come una lotta politica nel campo della produzione di conoscenza non diminuisce la necessità di prestare attenzione al terreno materiale della cura come un progetto femminista, cioè, nelle lotte sulle condizioni di vita delle donne e altre persone marginalizzate. La questione rimane non solo come pensare, ma come creare e sostenere reti di cura interdipendente quando si tenta di vivere attraverso queste esperienze. Spazi come Sophia potrebbero essere di vitale importanza per promuovere la continua rievocazione di significati da dare alla segreta Società delle Estranee di Woolf, riflettere sulle nostre vulnerabilità alle fedeltà artificiali, e nutrire e collegare i punti di forza reciproci dentro e oltre il mondo accademico.

NOTE

[1] Virginia Woolf, Le Tre Ghinee. Milano Feltrinelli, 2016 (nona edizione). Traduzione italiana di Adriana Bottini, Introduzione di Luisa Muraro.

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