Pubblichiamo il testo dell’intervento di Federico Zappino per il seminario di oggi, “Il corpo e la polis. Dalle differenze di genere alle singolarità incarnate”, organizzato da Lea Melandri presso la Libera Università delle Donne (Milano)

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Vorrei partire dai termini del titolo di questo incontro – “differenze di genere”, “singolarità incarnate” – per chiarire fin da subito la mia posizione, sperando di non disattendere troppe aspettative. Lasciatemi dire che il mio pensiero è che noi non viviamo nel mondo delle “singolarità incarnate”; tutt’al contrario, viviamo in un mondo in cui “il genere” resta un asse portante, analitico, critico, e politico. Un mondo che è costantemente prodotto dalle differenze di genere, e che in quanto tale costantemente produce differenze di genere, in modi che sono spesso indiscernibili dalla produzione delle diseguaglianze di genere. Il nostro mondo, i nostri modi di vivere, i modi in cui veniamo percepiti dagli altri, così come quelli in cui percepiamo noi stesse, sono piuttosto lontani dal potersi definire “post-genere”.

Credo che questa sia un’importante lezione che apprendiamo dal femminismo, benché “genere” non sia forse la parola preferita da tutte le femministe. Ma ciò che intendo dire è che nessuno e nessuna di noi, quando viene a questo mondo, sceglie il proprio genere. Il genere, piuttosto, è ciò che ci trascende, e che ci definisce. E dico questo senza alcuna paura di scivolare verso l’orizzonte concettuale della differenza sessuale. Che il genere ci trascenda, in quanto soggetti, non significa infatti che il suo carattere sia trascendentale – fisso, immutabile, oggettivo, sul quale non abbiamo alcun potere di intervento, anche in quanto soggetti. Il genere è piuttosto quella strana cosa che ci trascende in quanto soggetti, pur restando del tutto immanente a quel mondo che ci precede. Ed è importante che questi due elementi – quello della trascendenza e quello dell’immanenza – continuino a essere tenuti entrambi, debitamente, in considerazione, perché è solo la loro compresenza a rendere possibile sia la comprensione di ciò che il genere fa nel momento in cui ci agisce, sia la comprensione di ciò che del genere possiamo farcene nel momento in cui agiamo. Ci perderemmo infatti qualcosa del carattere duale, trascendente e al tempo stesso immanente, della performatività del genere – ed ecco lo spostamento concettuale verso il queer – se non tenessimo in debita considerazione che l’ordine simbolico ci agisce prima della nostra capacità di agire, e che continui ad agirci in ogni istante in cui agiamo: ciò significa che dobbiamo intendere la performatività del genere innanzitutto nei termini di “assegnazione di genere” – e con questo concetto mi riferisco a tutte quelle modalità attraverso le quali veniamo interpellati attraverso un nome, innanzitutto, un nome riconoscibilmente maschile o femminile, e “genderizzati” molto, molto prima di capire in che modo il genere agisca su di noi, dandoci una forma, dando un senso al nostro corpo, e anche molto prima della nostra capacità di fare il genere, in modi che si possono anche scegliere. All’interno di questo processo performativo, pertanto, la scelta arriva semmai in un secondo momento, e resta sempre precaria poiché avviene attraverso termini e modalità performative che non scegliamo mai fino in fondo.

Con “performatività del genere” non ci riferiamo mai, infatti, solo a ciò che facciamo. Con questo concetto, piuttosto, ci riferiamo anche, in modo determinante, al modo in cui il potere del discorso e delle istituzioni ci condiziona, vincolandoci e mettendoci in relazione con ciò che poi definiamo “le nostre azioni” e “le nostre convinzioni”. E per comprendere l’importanza performativa delle parole attraverso le quali veniamo interpellati fin da quando siamo solo corpi suscettibili e vulnerabili, così come di quelle attraverso le quali, in un secondo momento, ci autodefiniamo attivamente e con convinzione, dobbiamo innanzitutto individuare quali relazioni di potere, e di forza, siano all’opera in seno all’ampio spettro delle modalità performative di assegnazione di genere. Solo se facciamo questo siamo in grado di osservare in che modo gli atti linguistici ci condizionano e ci animano in modi incarnati – dal momento che la suscettibilità e la vulnerabilità, in un certo senso, s’inscrivono anche a livello corporeo. Infatti, l’incorporazione implicata dai nostri modi di performare il genere si trova a essere in una relazione di dipendenza dall’ordine simbolico e sociale attraverso il quale si organizza il più vasto mondo intorno a noi. E ciò che determina il carattere duale di questa performatività – da qui non mi smuovo – è la matrice eterosessuale al di fuori della quale non saremmo propriamente in grado di concepire il genere che ci viene imposto, così come quello che ci scegliamo.

Con “matrice eterosessuale” intendo ciò che Judith Butler illustrò in Gender Trouble, alle origini del pensiero queer:

una griglia di intelligibilità culturale attraverso cui i corpi, i generi e i desideri vengono naturalizzati

[…] un modello discorsivo epistemico di intelligibilità di genere che presuppone che i corpi, per essere coerenti e avere senso, debbano avere un sesso stabile espresso attraverso un genere stabile […] e attraverso la pratica obbligatoria dell’eterosessualità[1].

Come scrive esemplarmente Gianfranco Rebucini, in Cannibalismo queer, questa matrice “si esprime a tutti i livelli della realtà sociale: politica, economica, ideologica”[2]. Pertanto, la mia idea è che nonostante il queer sia stato reso oggetto di annacquamento da parte della razionalità neoliberista, ivi inclusa l’accademia neoliberista, nonché reso ancillare all’immaginario dell’“individuo autonomo” che “contratta liberamente” servizi, rapporti e prestazioni, un individuo senza corpo, senza storia, senza legami (involontari e volontari), un individuo la cui vita è permeata in tutti i suoi ambiti dal mercato, e che dunque rispetto a esso deve essere pienamente efficiente, mobile, libero, disponibile – nonostante tutto ciò, i pilastri teorici del queer continuano invece, ostinatamente, a offrirci uno strumentario critico che potrebbe a un certo punto svelare di essere meno antitetico di ciò che si pensi rispetto a quello sviluppato dal femminismo, e che tale strumentario ci consenta di rispondere a questa domanda: come lottare contro le diseguaglianze di genere senza con ciò reiterare ciò che costantemente produce le differenze di genere? Dal mio punto di vista, infatti, è piuttosto ingenua quella dicotomia sostenuta invece da molti e da molte, secondo cui a costituire un problema sarebbero le “diseguaglianze” di genere, e non le “differenze” di genere, là dove il primo concetto (diseguaglianze) avrebbe una valenza negativa e il secondo (differenze) avrebbe invece una valenza positiva. La mia posizione – e io la intendo come una posizione queer – è che a dispetto di ogni facile entusiasmo noi non siamo affatto, ancora, nelle condizioni di poter stabilire dove finiscano le oppressive e violente diseguaglianze di genere, e dove inizino invece le libere, plurali, infinitamente diverse, differenze.

Qualche giorno fa, nell’introdurre una classe di studenti e studentesse, all’università di Bologna, al concetto di “genere”, non ho potuto aggirare alcune considerazioni necessarie. La prima: nessun uomo etero cisgenere deve temere di essere stuprato da una donna. La seconda: nessun uomo etero cisgenere deve temere di subire violenze, molestie, o intimidazioni, ogni qual volta attraversi la strada, per il modo in cui vive ed esibisce il suo genere. La terza: nessuna coppia composta da un uomo e da una donna cisgenere deve temere di scambiarsi un bacio, anche appassionato, nello spazio pubblico. La quarta: i lavori di cura, e sessuali, a livello globale, continuano a essere svolti nella stragrande maggioranza dei casi dalle donne (anche in quei casi in cui, cioè, queste donne sono di altra nazionalità, di altra classe o di altra razza). Mi sarei potuto senz’altro dilungare nell’esposizione di altre considerazioni necessarie. D’altronde, sarebbe bastato anche solo guardare a quella classe: le studentesse e gli studenti, un centinaio di persone assiepate in un’aula universitaria, erano tutte e tutti perfettamente distinguibili in quanto donne o in quanto uomini, quali che fossero i modi – che non potevo conoscere – attraverso i quali loro si percepivano, o quali che fossero le forme della loro sessualità. E sarebbe bastato che loro guardassero me: anch’io dovevo essere ai loro occhi perfettamente distinguibile in quanto uomo, e in quanto uomo cisgenere, al di là del fatto che questa immagine coincida con l’immagine che io ho di me.

Traggo spunto da questo per chiedermi: quando ci si riferisce alla “differenza sessuale” si intende semplicemente fare riferimento a quella “matrice eterosessuale” che ci rende fin dall’inizio tutte e tutti uomini e donne cisgenere; che prevede rigidi e binari percorsi medici (spesso, patologizzanti) e giuridici (spesso, criminalizzanti) per chiunque voglia transitare da un genere all’altro; che prevede invece la normalizzazione per chi, alla nascita, non è perfettamente leggibile sulla base di questo genere o di quell’altro? È questo ciò a cui ci riferiamo? D’altronde, alcune esponenti del femminismo – tra cui Lea Melandri – hanno insistito sul fatto che con differenza sessuale non si è mai voluta indicare la mera differenza genitale, quanto piuttosto quell’insieme di modalità attraverso le quali il mondo così com’è, con i suoi concreti rapporti di forza e con i suoi concreti apparati di attribuzione di significato, ci rende sessualmente differenti. Ci stiamo dunque riferendo alla stessa cosa usando altri termini? So che molte altre femministe non si troverebbero d’accordo con questo accostamento; forse alcune ritengono che questa matrice o differenza costituisca più qualcosa da preservare che da contestare, o sovvertire; e so che non tutte condividono quell’idea secondo cui l’oppressione storica degli uomini sulle donne – il patriarcato – presuppone essa stessa una cornice simbolica e sociale eterosessuale, che può persistere anche in assenza di oppressione “formale”, o “sostanziale”. Al netto di tutto ciò, tuttavia, vorrei suggerire che l’assunzione della differenza sessuale nei termini di produzione di uomini e di donne cisgenere, ossia di generi maschili e femminili conformi alla matrice eterosessuale possa oggi essere necessaria per il respingimento di quelle retoriche, pericolose e tossiche, secondo le quali “il mondo contemporaneo democratico, progressista e secolarizzato” possa fare a meno del genere, retoriche secondo le quali questo mondo sarebbe un mondo “post-genere”, o “post-gender”, appunto un mondo delle “singolarità incarnate” in cui le differenze singolari non intrattengono più alcun rapporto con la matrice (o differenza) (etero)sessuale. Un mondo “queer”, in altre parole: un mondo in cui le differenze di genere sono dissolte, non occupano più alcun ruolo nelle relazioni sociali, in quelle sentimentali, sessuali, economiche, lavorative, o parentali. Un mondo in cui “il genere”, innanzitutto, non occupa più alcun ruolo nei processi di soggettivazione, psichici e corporei.

Niente di tutto ciò è vero, e dovrebbe essere respinto con fermezza – tanto dal femminismo quanto dal queer, e forse ancora meglio se alleati. Mi viene in mente un articolo che ho letto di recente, un articolo che così come riconosceva agli otto anni di presidenza Obama il merito di aver gettato le basi per una società statunitense “post-razziale”, azzardava l’ipotesi che la vittoria di Hillary Clinton avrebbe finalmente gettato le basi per una società “post-gender”[3]. Da quando l’inclusione differenziale neoliberista delle donne e dei neri ci autorizza a parlare di società post-genere, o post-razziale…? In che modo elementi come la maggior partecipazione politica delle donne e dei neri, o la concessione del diritto di sposarsi alle coppie omosessuali, ci inducono ad affermare la compiuta sovversione dei privilegi bianchi o della matrice eterosessuale? Su tutt’altro versante teorico e politico, fortunatamente, questa estate ho letto un articolo di Miguel Mellino assai critico nei riguardi del cosiddetto ordine discorsivo “post-razziale” statunitense. In questo articolo, Mellino scrive che ciò che mostra la continua produzione discorsivo-istituzionale dei neri (e dei neri poveri, innanzitutto) come “gruppo soggetto a morte prematura”, per dirla con Ruth Gilmore[4], è che il discorso post-razziale non è che “la condensazione feticistica, o il supplemento ideologico, di una nuova e più perversa forma di razzismo[5]. Si tratta esattamente di ciò che direi relativamente al genere: il discorso post-genere non è che la condensazione feticistica, o il supplemento ideologico, di un nuovo e più perverso consolidamento dell’ordine simbolico e sociale eterosessuale.

Il discorso post-genere non rende il “genere” invisibile – a livello di “differenze” fenomeniche – né innominabile. Tutt’altro. La caratteristica di questo discorso, piuttosto, consiste nella sua attitudine a negare la dimensione strutturale, sia simbolica sia materiale, della matrice eterosessuale, anche nella società odierna. Il discorso post-genere, in altri termini, nega la matrice eterosessuale come base per la “costituzione materiale” del genere, ossia come dispositivo alla base della produzione gerarchica dei soggetti in termini di genere, e delle loro relazioni. Costruendo “le differenze” come fenomeni scissi dalle condizioni simbolico-materiali della loro produzione, il discorso post-genere feticizza sia il genere (esplicitamente) sia la matrice eterosessuale (implicitamente), finendo per ontologizzare “le differenze” proprio nel momento in cui se ne serve discorsivamente per affermare il compiuto superamento de “le diseguaglianze”. Così, fenomeni sociali che sono ovviamente il frutto della matrice eterosessuale intesa come dispositivo strutturale di produzione della società – come ad esempio la violenza, la povertà, la vulnerabilità, il bisogno di riconoscimento, l’inclusione condizionale, l’inclusione strumentale, o la radicale esclusione a cui sono soggette le donne e le soggettività Lgbtqia – finiscono per apparire come fenomeni individualizzati, come “questioni private”, o frutto di “scelte sbagliate”.

Il discorso post-genere funziona dunque come un potente dispositivo di naturalizzazione delle diseguaglianze di genere[6], volto a farle apparire – semplicemente – come differenze. Il suo effetto principale è quello di rendere il genere – e tutto ciò che esso implica in termini di soggettivazione e di relazione – una componente “naturale” delle società contemporanee. Secondo il discorso post-genere, infatti, i processi di genderizzazione, intesi come distribuzione differenziale di privilegi e costi, non sarebbero più determinati dalla matrice eterosessuale, bensì, illusoriamente, dalla “mano invisibile” della società e del mercato (Smith), o dalla “lotteria sociale” (Rawls). Di conseguenza, uno degli scopi fondamentali del discorso post-genere è rendere “invisibile” l’eterosessualità (come modalità e come pratica privilegiata di soggettivazione e di relazione) attraverso l’iper-visibilizzazione della sua radicale alterità – specialmente del gay omonormato. Qui risiede anche uno degli effetti più perversi del discorso post-genere: nella sua negazione della matrice eterosessuale come dispositivo simbolico-materiale, così come nell’invisibilizzazione della posizione eterosessuale, esso destoricizza e desocializza i soggetti conflittuali, facendo coincidere questa destoricizzazione e questa desocializzazione con la “libertà” di vendere sul mercato la propria “differenza”. Ma che tipo di differenza è questa strana e paradossale differenza di genere che, inspiegabilmente, non affonda le sue radici nella matrice eterosessuale? È ovviamente una domanda retorica, e mi serve a ribadire con estrema convinzione che il discorso post-genere, proprio come il discorso post-razziale, “lavora nell’oblio della storia”, per riprendere le parole di Mellino, ossia lavora nell’oblio di quelle stesse condizioni storiche in seno alle quali si sono formate le gerarchie, i privilegi, le oppressioni e i costi che presiedono alle vite di genere di ciascuna e ciascuno di noi. E attraverso l’apparente rimozione della matrice eterosessuale dal discorso pubblico, il discorso post-genere non può che inscrivere esclusivamente nei “gusti”, ossia nelle “differenze individuali”, le verità storicamente, e oggettivamente, prodotte dalla matrice stessa. Suppongo che sia grazie a questo stesso oblio che oggi, da più parti, ci si permette di occupare le piste aperte dalle controcondotte linguistiche e politiche sulla “violenza di genere” – ossia la violenza materiale ed epistemica esperita dalle donne, dalle persone trans*, intersex, asex, bisex, queer, dalle lesbiche, dai gay, dalle persone disabili non-eterosessuali, dalle persone gender fluid e da molte altre soggettività che trascendono ciascuna di queste definizioni – per annacquarle con lo stucchevole discorso della “violenza in genere”, per usare una suggestione di Deborah Ardilli. Con buona pace di queste memorie corte, se a essere violento è innanzitutto l’assetto dei generi così com’è, nel mondo così com’è, con i suoi concreti rapporti di forza, ciò significa mettersi l’anima in pace circa il fatto che questa violenza si esplica innanzitutto attraverso la produzione di posizioni di genere normative e privilegiate e, nello stesso spazio e tempo, di posizioni di genere subalterne, minoritarie, esponenzialmente più esposte alla vulnerabilità. Se non partissimo da questo assunto basilare, d’altronde, non vi sarebbe alcun motivo di scendere in piazza, oggi, alla Trans Freedom March, a Torino, così come il 26 novembre, a Roma. Se non partissimo da questo assunto basilare non vi sarebbe alcun motivo di riprenderci le strade e le piazze e manifestare politicamente – a essere in discussione non sarebbe forse il significato stesso del manifestare politicamente?[7]

Queste manifestazioni servono a politicizzare le morti sociali ed effettive di quant*, in questo mondo, vivono il genere in un modo che è indiscernibile dalla vulnerabilità, dal conflitto, dalla precarietà, e dalla lotta. E politicizzare queste perdite significa resistere alla neutralizzazione della dimensione materiale della storia e alla privatizzazione delle questioni legate al genere operate dal discorso post-genere che, così facendo, assurge a elemento necessario e costitutivo della razionalità di governo neoliberista e delle sue modalità di inclusione. E se oggi la vittoria eclatante di Trump negli Stati Uniti – spalleggiata dal movimento pro life, dal Ku Klux Klan, nonché dalla più vasta classe media bianca ed eterosessuale, non solo statunitense – non fa che confermarci che le spinte neofondamentaliste s’insinuano tra le crepe delle fondamenta precarie delle illusioni di inclusività del neoliberismo stesso, e che a esso sono funzionali, dovrebbe essere ancora più importante, per il queer e per il femminismo, sottolineare che l’unico mondo post-genere possibile non è quello propagandato dal neoliberismo, né quello avversato dal neofondamentalismo. Piuttosto, è quello che le soggettività trans*-femministe-e-queer, persistenti e alleate, costruiranno quando avranno sovvertito proprio quella matrice eterosessuale in assenza della quale né il neoliberismo né il neofondamentalismo potrebbero operare, attraverso la naturalizzazione o attraverso la nuova, e in fondo vecchissima, gerarchizzazione dei generi, pena l’impossibilità radicale di distinguere la violenza delle diseguaglianze dalla libertà – che può emergere solo da una relazione egualitaria, non gerarchica, non binaria, e non mutualmente escludente – delle differenze.

[1] Judith Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità (1990), trad. it. di Sergia Adamo, Laterza, Roma-Bari 2013, cap. 1, nota 6.

[2] Gianfranco Rebucini, Cannibalismo queer. Gramsci e le strategie di trasformazione molecolare, in Federico Zappino (a cura di), Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, ombre corte, Verona 2016, p. 58.

[3] Sessualità, verso un mondo post-gender, in “Pagina 99”, 4 novembre 2016.

[4] Ruth Gilmore, Golden Gulag: Prisons, Surplus, Crisis, and Opposition in Globalizing California, University of California Press, Berkeley 2007, p. 28.

[5] Miguel Mellino, Pelle nera, potere bianco. Dallas, Baton Rouge e le ceneri del mito post-razziale, in “Commonware”, 30 luglio 2016, http://commonware.org/index.php/cartografia/713-pelle-nera-potere-bianco.

[6] Federico Zappino, Sovversione dell’eterosessualità, in Id. (a cura di), Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, cit.

[7] Relativamente alla manifestazione del 26 novembre 2016, “Non una di meno”, suggerisco la lettura dei documenti politici prodotti dal Sommovimento NazioAnale, Per uno spezzone transfemminista queer al corteo nazionale contro la violenza maschile sulle donne, 2 novembre 2016, https://sommovimentonazioanale.noblogs.org/post/2016/11/02/26n-per-uno-spezzone-transfemminista-queer-al-corteo-nazionale-contro-la-violenza-maschile-sulle-donne/ e dalle Fuxia Block, Non sui nostri corpi: violenza di genere e sovversione della norma eterosessuale, 1 novembre 2016, http://www.fuxiablock.org/index.php/2016/11/01/non-sui-nostri-corpi-violenza-di-genere-e-sovversione-della-norma-eterosessuale/.

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