«Ciò che aggrava la situazione è che si tratta di una crisi di cui si impedisce che gli elementi di risoluzione sviluppino con la celerità necessaria; chi domina non può risolvere la crisi, ma ha il potere di impedire che altri la risolva, cioè ha solo il potere di prolungare la crisi stessa […] forse ciò è necessario perché gli elementi reali della soluzione si preparino e si sviluppino, dato che la crisi è talmente grave e domanda mezzi così eccezionali, che solo chi ha visto l’inferno può decidersi ad impiegarli senza tremare ed esitare».

Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, Quaderno 14, p. 58

In queste recenti e frenetiche settimane sviluppi istituzionali e dibattito pubblico si sono articolati attorno all’ormai ben noto nodo della crisi di governo. Si è sentito parlare di responsabili ed esploratori; di soluzioni tecniche e opzioni politiche allargate; di dramma e salvezza nazionale.

Il dibattito si è frequentemente concentrato sulle singole individualità fino al parossismo, da Matteo Renzi a Giuseppe Conte, fino alla figura di Mario Draghi. Una simile lente ha implicato lo sviluppo di una visione semplicistica e binaria della crisi, che risponde perfettamente alle tendenze attuali del pensiero dominante e rappresenta un emblematico gioco di prestigio che permette al potere di restare al suo posto. Questo tipo di approccio ha evidentemente condotto verso una facile polarizzazione del discorso attorno alle personalità, portando ad esempio spesso a pensare a Renzi come unico artefice del tracollo di un altrimenti solido governo progressista. Senz’altro l’accelerazione delle contraddizioni interne al governo Conte II si è legata anche all’iniziativa individuale ma il quadro è ben più complesso e non prevede né fazioni e gruppi di potere nettamente contrapposti – la vicinanza di Renzi a Confindustria non significa ad esempio automaticamente una distanza di quest’ultima dal governo e dalle politiche sinora adottate, si ricordi anche il recente ed esplicito sostegno di Carlo Bonomi a Roberto Gualtieri – né risolve l’evidente mancanza di progettualità o quantomeno di strategia politica di quasi tutte le forze politiche. In questo senso degne di nota sono in primo luogo la staticità politica del PD, mascherata dietro un concetto di responsabilità che nasconde la totale de-ideologizzazione e l’allontanamento radicale dalla propria ragione sociale di riferimento. In secondo luogo, emergono le ennesime tensioni interne al M5S, diviso tra il richiamo delle pulsioni protestatarie originarie e l’ennesima concertazione con “la casta”; tra impostazioni gerarchizzate ed espedienti orizzontali; tra dichiarazioni contraddittorie del capo politico Vito Crimi e di Beppe Grillo e il rimandato ricorso alla piattaforma Rousseau. Più in generale questo atteggiamento confusivo risponde a un’istituzionalizzazione che è proceduta sin da subito a tentoni e per punti contraddittori, anche in tal caso senza né chiara ragione sociale di riferimento, né alcuna visione programmatica coerente. Non di meno è evidente la svolta in qualche modo filoeuropeista leghista, che però può essere letta come ennesima boutade di una storia partitica che è segnata da continui spostamenti, alla ricerca di congiunzioni tra allargamento di consenso e base sociale di riferimento, individuabile nel cosiddetto nord produttivo.

La sensazione che resta, anche adottando una prospettiva più immediata, è quella di una sempre più profonda crisi della classe politica di questo Paese. La sua drammatica narrazione viaggia sui toni dell’assolutizzazione delle colpe e dei meriti, di nuovo binaria e personalizzata, che cela responsabilità ben distribuite. Al contempo nasconde la complessità di intrecci di interessi tra gruppi economici, politici e mediatici: questi procedono per mediazioni distanti in modo abissale dalla realtà di una profonda crisi materiale e di una crescente polarizzazione della disuguaglianza sociale ed economica. Un ulteriore elemento che crea confusione è quello dell’idea diffusa, nazionalmente e internazionalmente, di un’eccezionalità italiana nell’articolazione di una crisi che viene presentata come incomprensibile, quando in vero ha radici profonde nella storia politica nazionale e nel suo rapportarsi con le trasformazioni storiche del capitalismo e delle strutture democratiche nel quadro occidentale.

A fronte di tutto ciò, mentre nello spazio più sostanzialmente critico – vien da sé, perlopiù extra-istituzionale – si fanno spazio moltissime proposte urgenti, tra cui emergono in primis la necessità di una riforma progressiva in materia fiscale e di una forma universale di welfare, occorre forse anche cercare di capire meglio alcune delle origini strutturali di questi processi, anche in prospettiva storica.

 

Anzitutto serve ricordare che la situazione odierna si lega alle onde lunghe di una crisi di rappresentanza democratica che non nasce in questi mesi e che non è una tipicità italiana.

Negli ultimi decenni ci sono stati mutamenti epocali: dalla globalizzazione, alla frammentazione del lavoro (e di lavoratrici e lavoratori), fino al declino di ideologie collettive e di sentimenti politici di appartenenza. La pretesa fine di un discorso di classe che ha accompagnato questi cambiamenti è tanto evidente quanto legata sia alla transizione neoliberista e all’affermazione egemonica dell’ideologia dell’individualismo neoliberale; sia a una visione lineare ed eurocentrica della storia che lega automaticamente il discorso di classe alla figura dell’operaio-massa e che si dimentica di una realtà globale che ha visto e continua a vedere la persistente compatibilità del capitalismo con diverse forme storiche di lavoro instabile e precario, libero e non libero. Tutta questa narrazione (egemonica) resta però distante da una viva realtà di soggettività lavoratrici subalterne – marginalità precarie, femminilizzate e razzializzate – semplificate e in qualche modo annullate nella loro dimensione collettiva e intersezionale, sempre a vantaggio delle classi dominanti.

Quest’ultime sono state a loro volta protagoniste di un altro tipo di frammentazione, quella del potere in un quadro di governance estesa, che lega soggetti pubblici, privati, semi-pubblici, individuali e collettivi. I partecipanti sono molto eterogenei e hanno capacità di pressione o intervento legale, economico, mediatico o sociale: questa fluidità si riflette anche in un movimento continuo di consultazioni, negoziati, aggiornamenti e compromessi, molto lontani dalle dinamiche elettorali. I meccanismi della governance costituiscono una sorta di facciata ideologica che nasconde, in nome del pluralismo, il processo di logoramento politico in favore del potere crescente del mercato. Senza scendere nello specifico di una tematica così complessa, basti qui rilevare che in un simile contesto l’impostazione neoliberista dell’economia ha contrapposto alla crescita di povertà e disuguaglianza polarizzata, l’imporsi di una diffusa patina ideologica caratterizzata da una pretesa neutralità del mercato e dalle relative retoriche sulla meritocrazia, sulle competenze e sull’affermazione del self-made man, mai concepito come classed. Tale discorso ha conquistato spazio in tutti i partiti attuali dalla destra alla sinistra, in un’ottica di comune accettazione e assoggettamento al mercato, variabile solo di misura, accompagnandosi alla rappresentazione della gestione della cosa pubblica alla stregua di una sua amministrazione neutrale. Dunque, il potere appare sempre più intangibile e lontano, mentre la capacità di rappresentanza sociale continua a disgregarsi assieme a qualsiasi tipo di fiducia.

Cosa ne è derivato? Da un lato sono risultate rafforzate spettacolarizzazione e personalizzazione della politica, che rispondono a schemi di radice ottocentesca e che ad oggi cercano di ovviare al vuoto di rappresentanza, spostando altrove – spesso sulla costruzione della celebrità e sull’umanizzazione della quotidianità delle personalità politiche – la ricerca di un consenso che si vorrebbe unanime, privo di contraddizioni.

Dall’altro la poderosa crescita degli spazi di influenza delle forze insocievoli dell’economia e l’assenza di un riferimento politico hanno comportato un moto di rivolta sociale crescente, specialmente sui temi materiali di occupazione, salario e sicurezza. Mentre il potere si fa sempre più rarefatto risulta ancor più complicato comprendere nei confronti di chi o cosa indirizzare la rabbia sociale. È in questo quadro complesso e lacerato da tensioni antipolitiche antipolitiche – intese come fratture verticali variamente politicizzate – che si sono insinuati i canti di sirena dei sovranismi e dei populismi, che semplificano la realtà e limano le incongruenze e gridano contro i sistemi di potere di cui essi stessi fanno parte.

 

C’è poi il contesto italiano, con le sue specificità.

Uno dei punti sostanziali è individuabile nel tema della delegittimazione politica e delle classi lavoratrici. Il dibattito si è a lungo strutturato su latenti e costanti toni da guerra civile ideologica, implicando profonda instabilità e precludendo forme di inclusione sociale. Queste premesse hanno causato la difficoltà dell’alternanza di governo e le ricorrenti strategie di conservazione del potere. È una storia lunga che è partita dal trasformismo e ha toccato il bipartitismo imperfetto e le formule di stabilizzazione consociativa. Quand’anche l’alternanza di governo è diventata un’opzione, con le elezioni del centro sinistra guidato da Romani Prodi nel 1996, le basi della delegittimazione reciproca tra governo e opposizione non sono mutate di molto. A ciò si sono intrecciati gli effetti delle trasformazioni epocali sottolineate, che hanno delineato un terreno politicamente ancor più fragile e instabile, incapace di produrre governo e di licenziare riforme.

Ne sono derivati sfiducia crescente e un diffuso sentimento antipolitico, acuito dagli stessi partiti attraverso la retorica antipartitocratica. Sulla base degli echi di una lettura generalmente virtuosa della società civile, emersa con vigore a partire dagli anni Novanta, la frattura verticale tra società, partiti e istituzioni è andata infatti approfondendosi. Questa rottura generalizzata è quindi cresciuta assieme alle potenzialità della sua strumentalizzazione politica che ha trovato vasti spazi di radicamento fuori dalle istituzioni e paradossalmente anche al loro interno. La retorica che Craxi costruì attorno al cretinismo parlamentare è stato un punto emblematicamente anticipatorio di una dissoluzione politica dall’interno.

Non a caso proprio in questi anni si è radicata in Italia anche un’altra tipologia di espressione antipolitica, quella tecnocratica. Nella realtà repubblicana si sono susseguiti diversi governi tecnici – con la presidenza del Consiglio dei ministri di Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, Lamberto Dini nel 1995, Mario Monti nel 2011 – come risposta all’impotenza politica e come espressione sintomatica del radicamento sempre più pervasivo dell’ideologia della competenza e della narrazione della neutralità. Ciò non toglie che nella sostanza questi governi, insediatisi in congiunture economicamente e socialmente critiche, abbiano effettuato scelte politiche enormi, nascoste dietro la giustificazione tecnica e rispondenti largamente alle esigenze di mercato.

Possiamo verosimilmente pensare che il ripresentarsi di questi schemi nel quadro nazionale abbia creato un terreno particolare, dove tensioni antipolitiche e distorsioni semplicistiche dei sistemi di rappresentanza si sono manifestate con anticipo rispetto alle altre realtà europee. Non è dunque funzionale pensare alla situazione nazionale come anomala e la prospettiva storica è utile in tal senso. Si tratta di un incontro delle dinamiche politiche nazionali della delegittimazione e dell’esclusione sociale, con le trasformazioni storico-processuali globali delle strutture fondanti capitalismo e democrazia, lavoro e sistemi di cittadinanza e rappresentanza. Il filo conduttore è il rinnovarsi di sistemi di conservazione dei blocchi di potere, che riarticolano le narrazioni dominanti e producono soggettivazione e assoggettamento culturale e materiale.

E forse, guardando nel suddetto intreccio, si potrebbe pensare alla parabola che ci ha condotto al fenomeno Draghi. Si sono di fatto ripresentati gli schemi della delegittimazione, della difficile alternanza di governo, della subordinazione della politica al mercato e della sua riduzione a sistema neutrale di mera gestione della cosa pubblica, come si trattasse di una questione di più o meno conoscenze tecniche che comportano scelte giuste o sbagliate. L’acuirsi delle tensioni in relazione alle conseguenze sanitarie, economiche e sociali della pandemia ha inoltre posto in secondo piano la strategia di formazione di consenso attraverso l’organizzazione variamente populista del dissenso: l’alta dose di responsabilità civile e politica effettivamente richiesta è divenuta il nuovo e principale strumento dell’ordine costituito, orientando nel caso italiano la soluzione tecnica e l’idea di una collaborazione tra tutte le forze (sempre meno) politiche, che definirà i propri interventi più o meno progressisti sulla base della coalizione che si costituirà, ma pur sempre restando inserito nel quadro sistemico conservativo. Ciò mentre il ruolo e la stessa concettualizzazione della funzione politica vivono l’ennesima lacerazione.

Si è rafforzata la tendenza delle classi dirigenti (non solo politiche) di costruire un rapporto di fiducia con la popolazione attraverso processi narrativi che postulano a priori la propria inamovibilità e si fondano su una centralità performativa molto forte delle personalità. Il consenso che si cerca di costruire non è legato a visioni politiche organiche che procedono in senso programmatico, ma si muove per punti disarticolati e risulta estremamente personalizzato e funzionale alla rappresentazione semplificata della crisi e della sua risoluzione. Si tratta però di una crisi che è organica, che è segnata da profondi e oscurati conflitti di classe e che senz’altro non vede tutti sulla stessa barca. Non si può trovare alcuna soluzione sostanziale se non agendo attraverso un processo di riforma profondo legato a un complessivo ripensamento della società che si abita, incompatibile con la subalternità della politica al mercato, con il rifiuto di visioni working class e con la scelta di misure parziali esclusivamente funzionali a forme di cooptazione e di momentaneo contenimento della tensione sociale – non per ultimi i sistemi di sussidi, ristori et similia, senz’altro utili e al momento imprescindibili, ma non risolutivi. Servono riforme che agiscano su: fiscalità, lavoro, salari e redditi minimi garantiti e welfare universale; su diritto alla casa, sanità pubblica e universale, scuola pubblica e gratuita, infrastrutture per un diritto alla mobilità compatibile con la riconversione ecologica; sulla definizione di politiche di accoglienza e su un nuovo discorso relativo alla cittadinanza civica, che superi il rapporto di sangue quello con il territorio. Serve poi la capacità di ripensare la subalternità, fortemente legata alla variegata costellazione delle soggettività lavoratrici, al fine di proporne una dimensione collettiva e composita, fondata su nuove pratiche di organizzazione e solidarietà. Questo passaggio è dirimente per orientare un futuro aperto a una conflittualità che allarghi le maglie troppo strette di un’inclusività sociale erosa e che definisca una lotta egemonica di lungo periodo dove le forze del cambiamento e quelle della conservazione vadano definendo nuovi rapporti di forza in un contesto globale laddove continuano a perpetuarsi sistemi di oppressione e semplificazione sulla base delle impostazioni economiche del neoliberismo e della produzione culturale neoliberale; in un contesto nazionale che agli stessi processi lega il peso di non aver fatto i conti con le proprie genealogie storiche.

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