Una bella recensione di Tiziana Villani al libro di Cristina Morini, Vite lavorate. Corpi, valore, resistenze al disamore, (Manifestolibri, Roma 2022). Il libro verrà presentato a Milano il 24 maggio alle 18.30 alla Libreria Les Mots. Oltre all’autrice interverranno Annalisa Dordoni, Annalisa Murgia e Tiziana Villani

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Questo libro di Cristina Morini è intessuto da un filo rosso che intreccia, per cinque capitoli seguiti da un post-scriptum, un percorso che chiama in causa i corpi, le esistenze, le vite messe al lavoro in tutte le trasformazioni che il lavoro, il lavoro femminile, ha subito a partire dagli anni Settanta ad oggi.

Tuttavia voglio aprire queste mie note a partire dal Post Scriptum già pubblicato su Effimera, è un passaggio importante perché affronta la difficoltà di “dire”, di fare i conti con la guerra, le guerre in cui ci troviamo precipitati dopo due anni di pandemia. Sono riflessioni che conosco, che ho condiviso con Cristina lungo tutto questo periodo, ma trovarle nella loro forma scritta, dirette, senza ambiguità mi ha colpito acuendo l’ansia per questo tempo malsano e perverso. È proprio a partire dalle considerazioni finali di questo testo di Cristina Morini che è possibile cogliere la strutturazione del suo lavoro, che è uno studio accurato, ricco di riferimenti accompagnato da quella precisione scientifica che riconosce contributi e che è segno di grande onestà e generosità intellettuale. Scrive Morini: “Fin dal primo capitolo la condizione del lavoro femminile è collocata all’interno della sfera di un approccio genealogico in cui vengono ripresi i punti di riferimento teorici che Cristina Morini delinea a partire da Rosa Luxemburg a Karl Marx, congiungendosi con gli scritti di Lea Melandri e Clarice Lispector. Ripercorrendo la genealogia della sua formazione Cristina Morini sottolinea: “Il femminismo italiano marxista (operaista) degli anni Settanta ha costruito una griglia precisa a partire dai primi documenti di Lotta Femminista, trasferendo le proprie battaglie anche negli Stati Uniti con l’International Wage for Housework Compaign. Le donne partono da Marx e dalla definizione di capitale – inteso come rapporto sociale – e questo non può prescindere dalla comprensione di ciò che viene considerato produttivo e ciò che viene ritenuto improduttivo. Per Marx il lavoro è trasformazione della natura da parte dell’uomo, intervento dell’uomo sulla natura. E la forza-lavoro è la merce di cui l’uomo dispone, e che l’essere umano vende al capitale per produrre altre merci e per sopravvivere”. (p.38)

Per comprendere questo passaggio bisogna cogliere la formazione politica, culturale e militante di Cristina Morini, una formazione che declina il marxismo, l’operaismo con l’approccio femminista che la induce a sottolineare il ruolo del “capitalismo mortificante” nel quale i corpi assumono scrivono e sono scritti e comunque sono “il corpo della scena” (p.45)

Segue in questo senso il suo lavoro di inchiesta con le donne per il progetto europeo MASP (Master Parenting in Work and Life) attraverso una ricerca sul campo con un gruppo di donne disoccupate di Milano e di Trento, donne per le quali la precarizzazione, la perdita del lavoro viene descritta come un lutto, un lungo portato d’ansia.

Nel Secondo capitolo, rispetto alle genealogie storiche irrompe Carla Lonzi, la Lonzi del Soggetto imprevisto, un taglio decisivo, necessario, scrive Morini: “Da femminista, penso che, sopra ogni cosa, il limite del marxismo, insieme a Marx, sia stato non aver saputo guardare la donna come soggetto rivoluzionario, il soggetto imprevisto di Carla Lonzi, e l’oppressione femminile come processo sociale originario, ignorandola, cioè, “come oppressa e come portatrice di futuro”. Dare corpo e parola al soggetto, non più solo oggettivato, è stato il punto fondamentale del contributo del femminismo al pensiero e alla prassi della umanità che era, ed è, desiderosa di cambiare il mondo. Ribadisco, tuttavia, che di Marx va soprattutto tenuto nel massimo conto il metodo e, usando le parole di Hannah Arendt, “il grande senso storico”, capace di sorreggerlo proiettandolo oltre la storia che ha potuto osservare con i propri stessi occhi”. (p.57)

Arendt, Lonzi e il disfarsi delle prospettive del lavoro, dei diritti con le donne sempre in prima fila a pagare il carico della trasformazione.

Nel terzo capitolo la questione della soggettività irrompe esplicandosi attraverso la natura del bio-lavoro, dell’alienazione del rapporto dei soggetti con il potere e dunque con un regressivo ritorno al dominio patriarcale. Non solo Foucault, Canetti ma soprattutto Haraway, con il suo approccio che parte dai saperi situati, sviluppano il costrutto di questo capitolo che pone al centro la questione degli affetti, delle alleanze, delle relazioni fragilizzate, dell’atomizzazione delle vite messe compiutamente e totalmente al lavoro.

Il quarto capitolo insiste sulla questione del sapere corporeo che le donne hanno saputo con tanta forza rivendicare. Il corpo macchina-desiderio è inceppato dalla selezione umana in corso, una selezione che non ha “cura delle vite”, ma guarda a uno sviluppo tecnocratico che non riesce più a disattivare né i meccanismi di controllo e nemmeno quelli dell’alienazione. Piacere e desiderio, campo di una ben nota disputa tra Foucault e Deleuze, appaiono simulacri di un tempo residuale, in cui il corpo-macchina non può che avere come unico scopo il suo essere performativo in quanto cosa, merce di scambio.

Nel quinto capitolo, l’ultimo, il problema dell’Altro, dell’impermanenza, della fatica di socializzare per via di quella “digitalizzazione delle esistenze” che ci vuole in un tempo sospeso, addestrato e apparentemente domato; diventano questi temi domande urgenti riferite all’amore e alla cura, intese da Morini come istanze politiche non solo di resistenza, ma come forze del cambiamento.

Ma, avverte Cristina Morini richiamando Audre Lorde: “Andare al fondo dell’autenticità dell’erotico significa essere anche esposti ai conflitti o ai tradimenti”. (p. 176) Essere così esposti significa quindi riuscire a vivere nell’empatia, nella difficoltà, nel desiderio rinnovato di prospettiva attraverso le generazioni e coltivando i desideri dispersi.

Molti altri sono i temi che attraversano questo libro denso di rimandi, ma anche di opzioni politiche che rimandano alle lotte di San Precario fino al reddito di base, avremo modo di discuterne.

Per tornare al Post Scriptum, nei tempi che ci tocca attraversare non è così necessario essere remissivi, ignavi, ma occorre ancor di più essere lucidi e attenti, soggettività, donne che sanno come “il divenire donna” sia un lavoro di frontiera, di sgretolamento delle crepe per richiamare G. A. Anzaldùa.

Devo questo rafforzamento di apertura e prospettiva soprattutto all’amicizia e alla stima che mi legano a Cristina, che ho avuto fortuna di conoscere come sorella di un percorso che ci riguarda da ieri a oggi nella passione politica e relazionale, che è poi quella che costruisce i saperi e le vite che non vogliono rinunciare.

Da ultimo, c’è qualcosa nello stile, nella realizzazione di questo libro che rimanda a una tonalità diversa di scrittura, una tonalità intima e letteraria che non abbandona mai la prospettiva del “noi” a cui Cristina lega il suo sé.

 

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