Con riferimento al mercato del lavoro italiano, la prima settimana di luglio 2018 si è caratterizzata per due fatti rilevanti, il primo di carattere statistico, il secondo di carattere normativo. Sul primo aspetto intervengono Luca Albori e Andrea Fumagalli. Sul secondo, Gianni Giovannelli

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I dati – di Luca Albori e Andrea Fumagalli

 

L’Istat ha pubblicato i dati relativi a fine maggio 2018. La stima degli occupati registra un sensibile aumento (+0,5% rispetto ad aprile, pari a +114 mila). Il tasso di occupazione sale al 58,8% e il numero complessivo degli occupati raggiunge quota 23, 382 milioni. Grande enfasi è stata data dai giornali al fatto che finalmente dopo 10 anni è stato raggiunto il livello occupazionale pre-crisi, il cui livello massimo era stato toccato nell’aprile 2008 con 23,276 milioni. Di fronte a questi dati (che appaiono a prima vista ineccepibili) è immediato il twitter di Renzi, seguito a ruota da Gentiloni, per rivendicare la bontà delle politiche del lavoro attuate grazie al Jobs Act e al decreto Poletti (totale deregolamentazione dei contratti a tempo determinato, CTD).

Tuttavia, Marx ci ha insegnato che non bisogna fermarsi alla superficie ma che occorre scavare al di sotto.

Senza penetrare troppo in profondità, è già sufficiente osservare la diversa dinamica del tasso di disoccupazione, che oggi si attesta al 10,7% contro il 5,8% dell’aprile 2007 (valore minimo pre-crisi), per capire che, per quanto riguarda la disoccupazione, il gap da recuperare è ancora alto (quasi 5 punti percentuali, poco meno del 50%).

E come si spiega, allora, che il numero degli occupati abbia superato il livello massimo pre-crisi senza che a tale andamento sia corrisposto un analogo calo della disoccupazione? La risposta è semplice. È l’effetto dell’istituzionalizzazione della precarietà, che ha avuto luogo proprio grazie al Jobs Act: una precarizzazione che non ha diminuito la disoccupazione ma che l’ha accompagnata.

Due dati, anch’essi, ineccepibili, reperibili a un esame più approfondito lo confermano.

Il primo è semplice e descrive l’andamento dei contratti precari vis-a-vis con quelli realmente stabili. Per i quanto riguarda i soli CTD,si è registrato un aumento di oltre 610 mila unità rispetto a inizio 2008, quasi tutto concentrato negli ultimi 4 anni, mentre l’aumento di quelli a tempo indeterminato si ferma a 88 mila unità. Teniamo presenti che tra i contratti a tempo indeterminato vengono annoverati anche i contratti a tutele crescenti instaurati dal Jobs che in realtà sono contratti a tempo, dal momento che il lavorator@ può essere licenziato liberamente con un piccolo indennizzo nei primi tre anni.Nel periodo gennaio-aprile 2018, i dati dell’Osservatorio sulla precarietà dell’Inps ci dicono che leassunzionisono state in tutto 2.429.000: sono aumentate del 10,4% rispetto allo stesso periodo del 2017. Ma la crescita varia a seconda della tipologia contrattuale: i contratti a tempo indeterminato crescono solo del 4,0%, contratti di apprendistato +14,5%, contratti a tempo determinato +8,6%, contratti stagionali +3,6% (non è questo il periodo consono al lavoro stagionale), contratti in somministrazione +23,2% e contratti intermittenti +11,1%. Di fatto, negli ultimi dodici mesi su 100 nuovi occupati ben 95 erano a tempo determinato, quattro autonomi e solo uno è a tempo indeterminato o permanente: dei 457mila nuovi occupati su base annua 434mila sono a termine.

Se i CTD hanno superato i 3 milioni, tutte le tipologie precarie hanno raggiunto il livello storico di oltre 4,5 milioni, una quota in assoluto pari a quasi il 30% dell’insieme dei lavoratori subordinati. Erano la metà a inizio crisi.

Il secondo dato è ancor più dettagliato ed esplicito. Uno strumento utile a comprendere se l’occupazione nel nostro paese è stabile sono le Unità Di Lavoro (ULA) che convertono le posizioni lavorative in unità standard, ovvero unità di lavoro a tempo pieno, attraverso specifici coefficienti che tengono conto dei posti di lavoro a tempo ridotto e/o determinato. Secondo le rilevazioni dell’Istat, le ULA sono aumentate progressivamente fino allo scoppio della crisi, mentre dal 2008 al 2017 si riscontra un calo di oltre un milione di unità standard. Sempre grazie ai dati forniti dall’Istat, si nota come dopo il calo generalizzato che si è avuto tra il 2008 ed il 2013, le ULA irregolari sono tornate ad aumentare (nel 2015 si registra un +231,8 mila unità irregolari rispetto al 2013 e un +99,2 mila unità rispetto al 2008). Questo non si è invece verificato per le ULA regolari, che nel periodo 2008-2017 registrano un calo di 1,673 milioni di unità. Ciò è particolarmente preoccupante e denuncia una maggior diffusione di forme di lavoro precarie se non al fuori dai confini della legalità.

In altre parole, la quantità di lavoro che oggi è necessario all’economia italiana è ben lungi da essere pari a quella pre-crisi. Renzi rivendica che grazie a lui e a Gentiloni, l’Italia è uscita dalla crisi creando un milione di posi di lavoro. La realtà è ben diversa. Nel periodo 2008-2017 l’Italia ha perso un milione di ULA, la vera unità misura della quantità di lavoro. Ciò spiega perché la disoccupazione si è mantenuta elevata ed è aumentato il numero degli scoraggiati (coloro che non cercano, ma sono disponibili sono oltre 3 milioni nel primo trimestre 2018, +446,26 mila rispetto allo stesso trimestre del 2008, +1002,93 mila rispetto a quello del 2006) e dei NEET (+337,18 mila tra il primo trimestre 2008 e quello 2018). Se l’occupazione è cresciuta il motivo sta esclusivamente all’effetto sostituzione tra lavoro stabile e lavoro precario, con effetti pesanti sulla stessa dinamica congiunturale italiana e sulla tenuta dei conti pubblici (mancate entrate fiscali e previdenziali).

Non può quindi stupire che, a fronte della presente dinamica demografica, il minor inserimento dei giovani nel mercato del lavoro (solo in parte compensato dall’aumento dell’occupazione migrante) e soprattutto la loro crescente precarizzazione rischia di innestare una bomba sociale sul futuro previdenziale degli attuali precari. Non solo le entrate contributive si riducono ma la possibilità per i giovani (e meno giovani) precari di oggi (e di domani) di poter godere di una pensione dignitosa sono sempre più basse.

Pesanti, last but not least, sono le ripercussioni sulla distribuzione del reddito, che negli ultimi 10 anni ha visto un preoccupante aumento della concentrazione dei redditi sia a causa della stessa precarizzazione del lavoro che per gli interventi fiscali sempre meno progressivi

[1].

Secondo l’indagine Banca d’Italia sui bilanci delle famiglie italiane, osservando infatti la distribuzione del reddito equivalente[2] tra persone si riscontra un calo per le fasce di reddito più basse, particolarmente accentuato per il primo decile (- 896 euro nel periodo 2007-2017), mentre risulta più contenuto per il primo quartile (- 63 euro), mentre un aumento per quanto riguarda il terzo quartile (+ 489 euro) ed il nono decile (+ 425). L’impatto della crisi non è stato pertanto omogeneo, ma più pesante per gli strati più deboli. Osservando il rapporto interquintile S80/S20 del reddito delle famiglie, come registrato dall’indagine EU-SILC, si evidenzia un aumento di 1,1 punti per l’indice italiano che nel 2016 raggiunge un valore pari a 6,3, contro il 5,2 dell’Unione Europea. Il divario con la media europea (oggi pari a 1,1) era ridotto a 0,2 punti nel 2008 e ciò evidenzia come nel nostro paese le disuguaglianze siano aumentate in maniera rilevante.

Tale dato è accompagnato da un incremento dell’indice di concentrazione anche scomponendo la popolazione per tipologia lavorativa e cespite di reddito di provenienza. Aumenta la concentrazione all’interno dei percettori di reddito da lavoro e tra costoro (in media) e i percettori di altri redditi (profitto e rendita). È quindi del tutto in linea il dato recente che vede nel 2017 un forte aumento della povertà relativa che cresce rispetto al 2016. Nel 2017 riguarda 3 milioni 171 mila famiglie residenti (12,3%, contro 10,6% nel 2016), e 9 milioni 368 mila individui (15,6% contro 14,0% dell’anno). Ciò che preoccupa è che tale aumento non riguarda più solo le categorie tradizionali dei disoccupati e dei pensionati a basso reddito ma anche e soprattutto coloro che hanno un’occupazione (spesso precaria, working poor), tra i quali l’incidenza di povertà cresce a quasi il 20% tra gli operai e assimilati.

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La norma – di Gianni Giovannelli

 

Il governo Conte ha consegnato a Mattarella, per la firma, il decreto legge approvato in data 2 luglio dal Consiglio dei Ministri. Dobbiamo ritenere che il testo sia stato concordato anticipatamente con il Presidente, in caso contrario il rischio di un diniego esiste e le conseguenze sarebbero davvero difficili da prevedere. Il Quirinale, prima di emanare il provvedimento (che allo stato ancora, tecnicamente, non esiste) ha la funzione di verificare l’effettiva sussistenza di un caso straordinario di necessità e urgenza , requisito indispensabile secondo l’articolo 77 della Costituzione.

La scelta di uno strumento eccezionale come la decretazione lascia in verità perplessi, soprattutto a fronte delle norme in concreto introdotte nell’ordinamento. Ma è ben vero che da molti e molti anni tutti i governi hanno costantemente abusato di un meccanismo procedurale che consente di mettere il parlamento davanti al fatto compiuto e di saltare il complicato passaggio nelle commissioni (ancora da costituire peraltro). In soli sessanta giorni le camere debbono poi approvare il testo (eventualmente modificandolo) e, considerato il periodo estivo in cui cade, il terreno appare alquanto minato; soprattutto per via dell’attacco alla comunicazione pubblicitaria in tema di gioco d’azzardo, un settore in cui i gruppi di pressione sono particolarmente attivi, non senza interventi della criminalità organizzata e del potere finanziario.

Esaminare i singoli punti che trattano la materia giuslavoristica senza tener conto del come sono stati proposti sarebbe errato; la prevedibile pioggia di emendamenti che già sono in cantiere renderanno presumibilmente inevitabile il ricorso alla fiducia per evitare che il Decreto dignità cada per mancata approvazione in termini. E il voto palese o segreto sarà una ulteriore cartina di tornasole per comprendere lo stato di salute di questo esecutivo, certamente esposto a insidie politiche di ogni genere.

Il dato che appare subito rilevante concerne l’indubbio cambio di passo rispetto al governo del Partito Democratico e dei suoi alleati; per la prima volta la linea seguita con ritmo martellante dal 2012 viene modificata con inversione di rotta. Le modifiche, pur se assai prudenti e complessivamente poco incisive, sono pur sempre di contenuto favorevole ai lavoratori (precari e non precari), senza ulteriori accelerazioni nella corsa all’abbattimento dei diritti.

In concreto abbiamo un innalzamento della soglia minima di risarcimento per i licenziamenti illegittimi per gli assunti dopo il 2015: da 4 a sei mesi per chi abbia anzianità inferiore a tre anni. Non è certo una rivoluzione e tanto meno contiene il ripristino dell’art. 18. Ma è pur sempre qualche cosa, e di questi tempi acquista un significato simbolico. Soprattutto se lo si aggiunge alla crescita del tetto massimo (da 24 a 36 mensilità), elemento questo che in concreto riguarda i dipendenti degli appalti (logistica, mense, terzo settore) ove vale l’anzianità di posizione lavorativa, a prescindere dai cambi di gestione.

Si arresta anche la costante liberalizzazione dei contratti a termine e dei contratti di somministrazione. Anche qui l’intervento è assai timido, e l’introduzione, ma solo a posteriori, di una causale a giustificazione della proroga, appare facilmente aggirabile con l’aiuto di un buon avvocato. Pur tuttavia la riduzione da 36 a 24 mesi del limite di instabilità, insieme all’incremento del costo del lavoro precario, conferma una svolta. Una svolta pallida, ma una svolta.

Lo scontro è tutto legato all’aspetto simbolico del provvedimento, al cambio di passo appunto. Il potere economico vede con preoccupazione questa inversione di tendenza rispetto alla fedele esecuzione del processo di macelleria sociale da parte dei governi delle larghe intese; a prescindere dalla tollerabile portata, in concreto, delle modifiche quello che costituisce il vero pericolo è il riaccendersi della speranza , il ritorno ad un possibile antagonismo sociale.

L’articolo 4 del decreto introduce sanzioni a carico delle imprese che, dopo aver acquisito finanziamenti pubblici per la ristrutturazione, delocalizzano l’attività in paesi non appartenenti all’Unione Europea prima che siano trascorsi almeno cinque anni. E sanzioni simili prevede l’articolo 5 a carico di chi si avvale di sgravi legati alle assunzioni e nei cinque anni successivi ai benefici si liberi poi della manodopera. Anche questo blocco alle frodi, prevedibilmente, determinerà manovre occulte di boicottaggio da parte dei faccendieri abituati ad intervenire per drenare risorse finanziarie, con l’aiuto separato e/o congiunto della corruzione, della politica, della criminalità.

Le grandi manovre occulte sono certe al momento del vaglio parlamentare del divieto di pubblicità al gioco d’azzardo. Il problema della dipendenza dal gioco e della ludopatia è enorme. Vale la pena di ricordare un bel volume edito nel 2013, Vivere senza slot, scritto da quattro giovani pavesi del Collettivo senza slot, assai corposo e serio (l’Editore è Nuova dimensione); Luca Casarotti, in un suo contributo conclusivo, segnala il rapporto con la struttura mafiosa.

Io, per la mia attività sul campo, posso aggiungere il rapporto fra gli appalti della logistica e la struttura mafiosa, anche e soprattutto al Nord.

Ci dobbiamo misurare, con tenacia e con pazienza, oltre che con la necessaria passione, sul terreno nuovo e bizzarro che va emergendo in questi ultimi mesi. Senza preconcetti e senza sconti. Il significato, ripeto, prevalentemente simbolico dei provvedimenti contenuti nel decreto sarà inevitabile oggetto di scontro, dentro e fuori dal parlamento. L’esito non è per niente scontato; e le conseguenze comunque vada ci saranno.

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Un’ultima osservazione. Il Pd e la Confidustria si sono trovati perfettamente allineati nei commenti sul Decreto dignità e non è del tutto una sorpresa: che il Pd fosse ormai passato “dalla parte dei padroni” era noto. Ma in questi giorni, affermando candidamente che, se viene meno la totale deregolamentazione del lavoro, non vi saranno più le condizioni per assumere, entrambe le parti riconoscono all’unisono che l’unico modo per assumere è mantenere condizioni capestro, di sfruttamento e di alto ricatto del lavoro.

Anche qui, nulla di nuovo: il lavoro è sempre sfruttamento. Forse, almeno si getta la maschera sul lavoro “di qualità”, professionale, nel quale le competenze dei lavorator* vengono valorizzate e ipocrisie del genere.

 

NOTE

[1] Se dovesse passare la dualtax prevista nel contratto di governo giallo-verde, tale dinamica avrebbe un ulteriore accelerazione, con effetti ancor più pesanti sulla domanda aggregata e la crescita economica.

[2] Nell’analisi della distribuzione personale del reddito, ovvero di come quest’ultimo venga distribuito all’interno della popolazione prendendo in considerazione determinate caratteristiche[2], risulta opportuno utilizzare i redditi equivalenti. Infatti le famiglie, oggi nucleo di riferimento nelle indagini campionarie, non sono omogenee, sia per ampiezza che per composizione, fra loro e pertanto non risultano comparabili. Per questa ragione il reddito familiare viene rapportato ad un valore di scala in grado di tenere conto delle economie di scala che si realizzano in famiglia nonché dei bisogni diversi che si riscontrano in adulti e minori giungendo così ad ottenere il reddito equivalente, ovvero quel reddito di cui ciascun componente del nucleo familiare necessiterebbe per mantenere lo stesso tenore di vita nel caso vivesse da solo. Esistono diverse scale di equivalenza, ma a livello Eurostat viene utilizzata la scala OCSE modificata che va ad affidare un peso pari ad 1 al primo componente adulto della famiglia, 0,5 ad ogni altro soggetto di età maggiore o uguale a 14 anni e 0,3 ad ogni componente di età inferiore ai 14 anni. È dunque evidente che i redditi equivalenti siano comparabili fra loro.

Immagine in apertura: fotografia di Marco Costa, Val Trompia 2008

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